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Forum Irredentismo e Nazionalismo italiano

Guerra in Jugoslavia ed Istria

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Leonard Woods
view post Posted on 7/3/2017, 21:09     +1   -1




Vi riporto qui un interessantissimo articolo di LIMES che tratta ampiamente la vicende del confine orientale negli anni '90 e in particolare del rapporto dei missini e i Serbi.

QUANDO FINI SOGNAVA ISTRIA E DALMAZIA

Fin dal 1991 i nazionalisti serbi proposero ai loro interlocutori del Msi (poi An) la spartizione della Croazia. Uno scambio geopolitico fra ‘terre irredente’ e neutralità italiana nel conflitto: storia di un negoziato (quasi) impossibile.
di Federico Fubini
ARTICOLI, CROAZIA, EUROPA, ITALIA
QUELLA DI VENERDÌ 4 AGOSTO 1995 per i telespettatori croati è una giornata memorabile. Annullata la programmazione normale, fin dalle prime ore della mattina la televisione trasmette inviti a non uscire di casa per chi abita a Zagabria e in altri centri a portata di tiro dei missili serbi. Mentre l’esercito applica i piani dell’Operazione Tempesta – che in poche ore rimuove dalla carta dei Balcani l’autoproclamata Repubblica serba di Krajina (RsK) e dalla Croazia una buona parte dei serbi che l’abitavano – va dunque in onda un comunicato di Franjo Tudjman, a cadenze regolari di quindici minuti. Nel breve discorso, il presidente della Repubblica enumera le ragioni per le quali la soluzione militare in Krajina si è resa «necessaria». «Siamo stati costretti ad attaccare», dichiara fra l’altro il presidente, «dato che gli estremisti serbi, sin dall’inizio della rivolta (nell’estate del 1991) e ancora oggi chiedono aiuto a quel che è rimasto del fascismo italiano offrendo la spartizione del territorio croato tra imperialismo italiano e serbo».

Il Muro di Zara

Il momento e la frequenza con cui viene trasmesso il comunicato sono tali che difficilmente esso può passare inosservato. L’ambasciata croata di Roma tiene tuttavia a precisarne la portata, ricordando che le frasi di Tudjman non si riferiscono al governo italiano. Lo stesso segretario di Stato agli Affari esteri di Zagabria Ivo Sanader spiegherà giorni dopo al pubblico della sponda opposta dell’Adriatico che, semmai, le accuse sono rivolte «non all’Italia, ma solo ad alcune forze politiche» i cui parlamentari sarebbero andati a Knin (la «capitale» della RsK) per parlare – entra in particolari Sanader – della spartizione della Dalmazia».

Quali che siano tali forze, il presidente del Consiglio Lamberto Dini mostra di non volersi far coinvolgere da quelli che egli qualifica «eccessi verbali senza peso», sbilanciandosi solo per ricordare che «le sorprendenti qualificazioni della politica italiana non meritano riscontro». Più irritato appare il presidente della commissione Esteri della Camera, Mirko Tremaglia, al quale i riferimenti ai «resti del fascismo italiano» e a un loro ipotizzato «imperialismo» paiono un «incitamento all’odio». Tremaglia, che è responsabile del dipartimento Esteri di Alleanza nazionale e prima ancora lo era stato del Movimento sociale italiano, rifiuta vivacemente gli addebiti di Tudjman: «Mai accorto, io, che ci fosse un imperialismo italiano. (…) Puntare ad allargare la guerra è un segno di pesante irresponsabilità». Quanto al merito, «quest’accusa di Tudjman è assurda, inverosimile, inesistente. (…) Certo», riconosce il presidente della commissione Esteri della Camera, «ci sono stati dei serbi che hanno detto quelle cose. Però nessuno ha mai risposto a questo genere di offerte. Noi abbiamo sempre detto che per noi non esiste alcuna questione territoriale né con la Slovenia né con la Croazia».

Ultimo fra i serbi che hanno «detto quelle cose», ovvero hanno evocato l’opportunità di un’alleanza in chiave geopolitica fra serbi e italiani ai danni dell’integrità territoriale croata, era stato Milan Martić, l’ex poliziotto di Knin eletto nel 1994 presidente dell’autoproclamata RsK. Ancora alla vigilia della fine della fragile entità serba ritagliata con la guerra del 1991-’92 fra la Krajina croata e l’entroterra dalmata, Martić non desisteva: il «confine fra l’Italia e la Krajina», secondo il leader separatista, dovrebbe correre «su Zara. Questa città dovrebbe essere metà serba e metà italiana. È una città troppo bella per lasciarla ai croati. Noi comunque», avvertiva in un’intervista pubblicata in Italia, «non rinunciamo al progetto di riprenderla».

Quattro anni non sono dunque bastati all’ex poliziotto di Knin per farsi una ragione del disinteresse italiano verso le città adriatiche perdute nel ’43? Oppure, invece, le blandizie serbe così come le ruvidezze croate verso la controparte italiana non sono che riflessi – in positivo l’uno, l’altro in negativo – dei protagonisti del conflitto, ciascuno in cerca di maggiore legittimazione all’interno del proprio fronte? Anche così, profilo e intenti di questi «imperialisti» italiani sarebbero da precisare. Quanto la televisione di Stato croata ha replicato novantasei volte in ventiquattr’ore merita allora – a differenza di quanto si è detto a caldo nelle risposte ufficiali – almeno un tentativo di riscontro.

Nemesi adriatiche

Nel marzo del 1991, il quotidiano del Movimento sociale, il Secolo d’Italia, invia a Belgrado un giornalista forse nell’idea di raccontare in fieri l’ennesimo sfaldamento di un regime comunista, quello del presidente serbo Slobodan Milošević. In quei giorni, la capitale jugoslava è battuta da manifestazioni (il 9 violenti scontri di piazza avevano provocato alcuni morti) che lasciano presagire un indebolimento della presidenza.

Se questo è l’intento del viaggio, andrà presto deluso. L’inviato del Secolo trova tuttavia motivi d’interesse nella personalità di Vuk Drašković, il leader all’epoca ultranazionalista del Movimento per il rinnovamento serbo (Spo), duro oppositore di Milošević. Al Secolo Drašković dichiara: «Provo una grande simpatia per questa nazione (l’italiana) e per il suo popolo, che si è sempre dimostrato amico della Serbia». «E poi abbiamo lo stesso mare…», aggiunge, attirandosi un’osservazione dell’intervistatore secondo il quale il leader nazionalista è caduto in un lapsus perché «la Serbia non ha sbocchi sul mare» (in realtà il suo sbocco è Cattaro in Montenegro).

Lapsus forse non fortuito, se si considera che nell’allora Repubblica federale croata giorni prima si era verificato un evento gravido di conseguenze. Alcuni comuni a maggioranza serba nell’entroterra dalmata e nella Krajina (ma Milan Martić, abbiamo visto, non si preoccuperà troppo della sfumatura geopolitica cara invece ai croati) avevano costituito il Territorio libero di Krajina – embrione della futura RsK – dichiarando che non avrebbero più obbedito alle leggi croate in contrasto con quelle serbe.

Da quel momento, i serbi erano un po’ meno lontani dal «bel mare». Ma il Movimento sociale in questa fase non è sensibile a simili sirene. La segreteria di Pino Rauti, che aveva sostituito nel 1990 Gianfranco Fini accusato di scarsa esperienza, guarda semmai proprio a Lubiana e, soprattutto, a Zagabria e al suo presidente Franjo Tud-man. A fine maggio ’91, il Secolo accoglie cordialmente la visita del leader dello HDZ a Roma. Rauti – un ex combattente di Salò che in quegli anni aveva sviluppato da posizioni di estrema destra un progetto «europeista» e anticapitalista – apprezza probabilmente in Tudjman la valutazione benevola degli ustascia e, di sicuro, il progetto secessionista: «Croati e sloveni stavano acquistando meriti nella lotta al comunismo che avevano riflessi fino al Baltico, e che andavano riconosciuti. Fini era invece irredentista, e di conseguenza tendenzialmente filoserbo», ricorda l’ex segretario del Msi. I nodi vengono al pettine poco più di un mese più tardi, a seguito dell’ulteriore insuccesso elettorale che fa toccare al partito minimi storici in Sicilia, tradizionale roccaforte missina.

Nelle ore in cui la trojka della Cee negozia sull’isola di Brioni una tregua in contropartita al congelamento per tre mesi delle secessioni di Lubiana e Zagabria dichiarate il 25 giugno, «finiani» e «rautiani» si scontrano in Comitato centrale. Ricorda Rauti: «Miravo ad accantonare l’irredentismo perché, in un’Europa riunificata, la questione dei confini non si porrà più. Fini al contrario sosteneva che io snaturavo il partito, perché il partito era irredentista. E dell’oltranzismo sciovinista si giovò contro di me, presentandomi come un moderato, un sinistrorso infatuato dell’Europa». Già allora, osserva Rauti, sottolineando un fattore importante nella futura lettura del Msi-An della crisi balcanica, «la più forte federazione del Nord, quella di Trieste, era accanitamente finiana proprio perché irredentista».

Per la verità più a causa della gravità della crisi interna che dell’ex Jugoslavia, Fini ha gioco facile nel riconquistare il potere «nel nome della tradizione e dell’identità del “fascismo-regime”» e in contrapposizione con i toni movimentisti e «rinnovatori» del suo predecessore. Coerente allievo di Giorgio Almirante, il giovane alla sua seconda segreteria «riprende il progetto storico dell’“inserimento nel sistema”, senza comunque cedere in nulla sull’identità originaria». Da sempre volto all’uscita dal pluridecennale «esilio in patria», tale progetto ha l’altra faccia della propria medaglia appunto nell’esigenza di «guardare al futuro senza dimenticare la tradizione e le radici», ovvero – nella fattispecie – una rappresentazione geopolitica dell’Italia che abbraccia tutta l’Istria, Fiume, Spalato, Zara, Ragusa. Annunciando in prima pagina l’elezione di Fini, il 9 luglio il Secolo specifica che fra i punti in programma della nuova gestione c’è «il ritorno dell’Istria all’Italia». Sotto, la notizia del raggiungimento di una moratoria di tre mesi tra i secessionisti e Belgrado.

È in questo clima in cui vengono concretizzandosi i rischi di guerra insiti nella secessione croata piuttosto che in quella slovena, che il ministro degli Esteri della Serbia, Branko Mikašinović, atterra a Roma a metà luglio 1991. Mikašinović è in Italia essenzialmente per far capire che – nonostante la linea ufficiale del suo governo fosse ancora di difesa dell’unità jugoslava – non è più possibile salvare la Federazione. Gli italiani farebbero dunque bene a intrattenere rapporti con le autorità serbe piuttosto che con il premier federale Ante Marković o con gli altri esponenti del suo morituro governo. Il ministro serbo viene ricevuto da Craxi e De Michelis, poi da alcuni responsabili della Dc e quindi del Pds. Da nessuno di questi incontri è soddisfatto.

Infine, grazie ai buoni uffici del parroco della chiesa ortodossa di Trieste Ilija Ivić, Mikašinović ha un colloquio con Gianfranco Fini: il leader di un partito che rivendica all’Italia una parte del territorio la cui integrità il governo serbo ufficialmente ancora difende. In qualità di parlamentare europeo eletto nel Friuli-Venezia Giulia, Fini è anche primo firmatario di una mozione (presentata pochi giorni prima) che chiede alla Cee di «riconoscere e sostenere l’indipendenza della Slovenia e della Croazia, fermo restando il principio della futura ricongiunzione alla madre patria (italiana) delle terre e delle popolazioni artificiosamente inglobate nell’ex Jugoslavia». Ma queste sono cose di poco conto, quando due parti si trovano entrambe in cerca di interlocutori che le legittimino sui rispettivi fronti interni. Ogni fattore che possa in qualche modo determinare uno spostamento delle frontiere (o piuttosto rendere credibile la propria agitazione in questo senso), per la nuova dirigenza missina è da sfruttare senza esitazioni.

Due settimane più tardi, Fini è a Belgrado. Nella Belgrado serba, non in quella federale, come più tardi sarà rivendicato puntigliosamente. Accompagnato da Tremaglia e dal giovane leader triestino Roberto Menia e, ancora una volta, guidato dal pope serbo Ilija Ivić, il neosegretario ha davanti a sé due giorni d’appuntamenti. Il distinguo con la stagione di Rauti non sarebbe potuto essere meglio marcato.

Per precisare questo episodio, conviene però dare la parola ai protagonisti. Dobroslav Maslarović, segretario di Stato per i rapporti coi serbi fuori della Serbia: «Erano stati gli italiani a sollecitare il colloquio. Volevano conoscere i nostri progetti su Istria e Dalmazia, insomma sulla costa adriatica fino a Spalato. Gli rispondemmo che a noi quelle terre non interessavano. So che poi incontrarono anche il capo delle Aquile bianche (una banda cetnica attiva in seguito nell’assedio di Goražde)».

Padre Ivić: «I primi contatti di Fini con la Serbia risalgono per la verità al ’90. L’intento era quello di rafforzare la vecchia amicizia fra i popoli italiano e serbo. Il popolo serbo voleva che l’Italia fosse riconosciuta come parte in causa nei Balcani, per quanto riguarda la Dalmazia e l’Istria. Nella villa dove si tennero i colloqui era previsto anche l’arrivo di Milošević. Ma il presidente preferì tenersi fuori».

Diverso il tenore dei ricordi degli italiani. Roberto Menia: «I serbi ci dissero: ma che aspettate a trovare un generale ribelle per riprendervi la costa che storicamente vi appartiene? Voi da nord, noi da sud: ci incontreremo a Zara»22. Mirko Tremaglia: «Siamo andati a fare un’operazione di conoscenza e di diplomazia senza mai, sottolineo mai, trattare la restituzione di territori all’Italia, che pure ci vennero offerti»23.

Lievi ma significative differenze, infine, nelle versioni di Gianfranco Fini prima e durante l’esperienza governativa al fianco di Silvio Berlusconi. Prima: «A Belgrado (…) volli dimostrare che era possibile aprire un tavolo diplomatico intorno alla politica e agli assetti nell’Adriatico. Dovrebbero essere presenti le nazioni dell’ex Jugoslavia accanto all’Italia. Potremmo (…) spuntare qualcosa di buono per noi, per i nostri esuli, e per gli italiani rimasti nelle terre perdute» 24. E durante il governo Berlusconi: «Furono i serbi a invitarci, perché sapevano che noi rivendicavamo l’italianità dell’Istria. Incontrammo solo esponenti dei gruppi parlamentari. Non rifiutammo perché la situazione non era ancora precipitata: c’era tensione ma la Serbia non aveva ancora scatenato aggressioni. Durante i colloqui, dopo una lunga premessa leninista sull’unità jugoslava, ci facevano capire che la Federazione era spacciata e che, in questo caso, si sarebbe andati verso una modifica dei confini interni, tracciati dal Comintern. Quindi pensavano di poterci proporre un’amicizia interessata sul tema della revisione delle frontiere della Croazia. Non avevano capito che noi non ponevamo la questione dei confini, bensì quello dell’identità culturale italiana della penisola istriana»25.

Ora, quel che più conta non è la cattiva memoria del presidente di Alleanza nazionale. In effetti, il titolo principale della prima pagina del Secolo d’Italia del 3 agosto 1991 così annuncia gli eventi del giorno prima: «Fini a Belgrado: “Riaprire la questione dei confini”»; mentre accanto, in tutta evidenza si dice che «in Croazia scorre il sangue» in seguito ad un attacco a Dalj, in Slavonia orientale, in cui l’armata federale affiancava i ribelli serbi. Aggressione o meno, Fini dichiara, alla fine di un colloquio con l’allora vice-primo ministro serbo Budimir Košutić: «Non si vede perché Istria e Dalmazia dovrebbero essere regalate alla Croazia». E poi: «Il Msi-Dn sostiene gli inalienabili diritti dei popoli, e sostiene quindi anche il diritto del popolo serbo a vivere secondo le proprie tradizioni». A scanso d’equivoci, un articolo non firmato del Secolo è più preciso: «Obiettivo principale della visita è (…) far capire che nella tutt’altro che remota eventualità di un dissolvimento della Federazione jugoslava, l’Istria e la Dalmazia dovranno essere restituite alla Madrepatria»26.

La ricostruzione di Fini è dunque errata su tre punti: 1) gli incontri di Belgrado furono anche a livello governativo e non solo parlamentare; 2) la Serbia aveva già «scatenato aggressioni» in Croazia; 3) Fini fece valere con la controparte serba rivendicazioni sul territorio croato, apparentemente ottenendo una certa benevolenza.

Ma, appunto, non è questo quel che più conta. Quanto, piuttosto, osservare come la lettura della crisi da parte del giovane segretario sia più matura – o più abile – di quella diffusa nel mondo politico romano. Prima di cedere alle pressioni in favore dei riconoscimenti da parte del suo omologo tedesco Hans-Dietrich Genscher, De Michelis con tutto il governo resta su una linea di valorizzazione delle istanze unitarie che, col senno di poi, apparirà velleitaria. Il Pds, principale forza d’opposizione, in mancanza di un’analisi meno superficiale, si limita a difendere il principio di autodeterminazione dei popoli, come se esso nello spazio jugoslavo non fosse di una micidiale ambiguità (autodeterminazione dei croati in Jugoslavia o dei serbi in Croazia?).

A una versione «belgradocentrica» della Jugoslavia27 Fini intanto – nella totale indifferenza cui è relegato il suo partito – sostituisce una visione «belgradocentrica» dei serbi, che come vedremo gli tornerà preziosa in seguito quando un’«alleanza geopolitica» quale quella abbozzata a Belgrado sarà impresentabile a causa della cattiva fama, soprattutto, dei serbi delle altre due «capitali»: Pale e Knin. In questa capacità di ridisegnare rapidamente la propria politica estera c’è già il Fini successivo: lungimirante e pragmatico nel proprio oltranzismo; i nemici di tutto il dopoguerra, nel giro di un mese possono così trasformarsi in potenziali alleati, grazie a un mutamento degli equilibri balcanici che la maggior parte dei leader italiani non aveva ancora inteso in tutta la sua portata. Né è da escludere, fra gli intenti del viaggio a Belgrado, un certo risentimento per la crescente influenza tedesca nei Balcani, che Fini avverte in concorrenza con quella del proprio paese. Anni dopo, a chi gli chiede di enumerare i responsabili della guerra jugoslava e i fattori che ostacolano l’azione di pace dell’Europa, risponderà: «Da un lato, la stessa Europa germanocentrica, dall’altro l’indole non pacifica dei diversi popoli slavi»28.

Da parte serba, Mikašinović qualche settimana dopo la visita italiana cade in disgrazia, sostituito da Vladislav Jovanović (il quale nella primavera del ’92 assumerà la guida della diplomazia della Federazione serbo-montenegrina). A Mikašinović sarà tra l’altro rimproverata la cattiva scelta di tempo nel sollecitare amicizie internazionali per la Serbia, poiché non si voleva dare all’esterno per spacciata la Federazione prima che, con la fine della moratoria, essa lo fosse ufficialmente (il problema della successione statale, per il momento, era ancora aperto)29. Ma già da questo episodio, traspare come la questione dei rapporti con gli italiani, e di chi li tiene, sia suscettibile di muovere gli interni equilibri della parte serba.

Nell’immediato il Msi resta comunque nella traccia segnata. Menia e Tremaglia pubblicano editoriali sul Secolo in cui fanno propri alcuni dei più caratteristici temi serbi. Secondo Tremaglia, «non vi può essere pace in quel fittizio conglomerato che si chiamava Jugoslavia se non si modificano i confini interni (…) imposti dal Comintern e da Tito», il quale «era croato, ed è bene sapere che i croati odiano gli italiani»30.

2N ell’autunno Menia, figlio di esuli istriani, scriverà a proposito della durezza dei serbi nelle due Slavonie (è il momento dell’assedio di Vukovar) e nell’entroterra dalmata: «Si potrebbe parlare, non a sproposito, di nemesi storica: ora i croati, che vivono nelle case da cui cacciarono 350.000 italiani, provano sulla loro pelle ciò che essi avevano riservato agli italiani». I croati allora, aggiunge, non dovrebbero certo aspettarsi la pietà dei nostri connazionali31.

Del resto la sensibilità della destra nazionalista per certi Leitmotive propagandistici serbi attraverserà l’intera guerra. Per adesso, tra le innumerevoli iniziative «irredentistiche» del primo periodo della segreteria di Fini (che si chiude con la sua candidatura a sindaco di Roma nell’autunno del ’93), vale la pena di isolarne giusto qualcuna, e non delle più spettacolari. Mentre Zara è sotto le bombe, Fini richiede l’«impiego diretto delle nostre forze armate» nei Balcani; alle quali «potrebbe essere affidato anche (corsivo nostro, n.d. a.) dagli organismi internazionali (dunque non necessariamente da questi, n.d. a.), il compito di intervenire per separare i contendenti ed evitare che gli italiani siano coinvolti negli scontri» 32. Un paio di mesi più tardi, tocca a Ragusa-Dubrovnik di essere investita dai missili dei ribelli della Krajina. In questa occasione il Msi non propone l’invio dei soldati italiani, quanto piuttosto di sottrarre la città alla sovranità croata «concedendo a Ragusa lo status di città libera» in modo «che gli sia restituita autonomia, libertà e indipendenza»33.

Ma i mesi passano, e la tremenda aggressione dei serbi di Croazia – appoggiati dall’armata federale – a Vukovar (dove l’assedio inizia nella tarda estate) o a Dubrovnik (duramente bombardata anche dal mare a partire dall’inizio di ottobre) non lascia indifferenti i media e l’opinione pubblica. Ancora una volta, per Fini è il momento della lucidità e del pragmatismo. «Il marxismo è finito e la Nazione ha vinto», scrive il segretario. Però stavolta continua: «(…) Siamo andati a Belgrado non per sostenere la politica imperialista della Serbia», ma perché gli altri partiti laggiù non hanno avuto «il coraggio di dire una sola parola su Istria e Dalmazia»34.

Con il marxismo, a Fini non sfugge che è finito anche ogni approccio semplicistico al dramma jugoslavo. La guerra etnica costringe a studiare le carte e i protagonisti, e non più a gettarci un approssimativo colpo d’occhio. L’Istria non è la Dalmazia, Knin non è Belgrado; e soprattutto non di tutti gli amici ci si potrà vantare come prima, negli anni della grande metamorfosi della destra nazionale.

Una penisola fra San Marino e Cipro

Alla Croce Rossa di Treviso lavora una signora nata a Zara e, in seguito alla resa dell’Italia nel ’43, rifugiatasi in Italia insieme a migliaia di connazionali. Mezzo secolo più tardi, senza volerlo, questa donna si è vista trasformare dalle «autorità» di Knin in strumento di propaganda geopolitica, nel giorno dell’inverno 1992-’93 in cui le fu tout court restituita la casa familiare nell’entroterra dalmata 35. L a strizzata d’occhio all’Italia del Nord-Est e ai partiti che da sempre mirano a raccogliervi i voti degli esuli non avrebbe potuto essere meglio pensata: nella disputa tra Roma da un lato e Zagabria e Lubiana dall’altro sul «diritto di ritorno» degli italiani dalmati e istriani, si aggiungeva così un’ulteriore ragione di zizzania. Era ormai evidente che col precisarsi dei rapporti di forza e dei – pur provvisori – assetti territoriali dell’ex Jugoslavia in guerra, affermazioni di massima quali quella dell’allora presidente della Federazione serbo-montenegrina Dobrica Čosić nel ’92, secondo il quale si andava verso il «naturale ricongiungimento di Istria, Fiume e Dalmazia alla madre Italia», non erano più adeguate. Ci voleva al tempo stesso qualcosa di più preciso e di più tangibile, per attrarre l’attenzione della controparte.

Non è dunque un caso se, espulso dall’Italia per il suo attivismo a favore dei combattenti serbi, l’ex pope di Trieste Ilija Ivić trova un nuovo lavoro quale «consulente» della RsK. Nell’ottobre del ’93, può così leggere al parlamento di Knin i presunti piani di un generale dell’esercito italiano su come prendere Zara dall’entroterra36.

Più complesso appare poi un altro episodio, di poco precedente, che vede ancora una volta attivissimo il sacerdote: la nascita (e per la verità la subitanea scomparsa nel nulla) del cosiddetto «Battaglione Garibaldi». L’agenzia di stampa ufficiale di Belgrado Tanjug, quindi il quotidiano belgradese Borba, infine – alla periferia della Grande Serbia – l’allora ministro dell’Interno e futuro presidente della RsK Milan Martić annunciano in settembre che un gruppo di alcune decine di italiani si starebbe preparando in Krajina agli ordini del comandante cetnico Dragan Vasiljković per «iniziare attività militari contro i croati tese al ricongiungimento di Istria e Dalmazia all’Italia»37.

Importa poco qui stabilire quanto ci sia di vero in questa vicenda che vede ancora Belgrado e Knin collaborare (in seguito, e con l’abbandono di fatto dei serbi di Krajina a se stessi da parte di Milošević, semmai competeranno) al fine di attrarre su di loro l’attenzione dell’opinione pubblica italiana. Certo, a dispetto delle promesse del portavoce dell’esercito della RsK, i sessanta/ ottanta militari – se davvero esistiti, probabilmente degli istriano-dalmati – non saranno mai presentati alla stampa 38.

Ma in Italia la destra nazionalista non dà segni di dubitare neppure un attimo della serietà dell’affare. Nel pieno della campagna per le elezioni comunali di Roma che lo consacreranno leader postfascista e di prima grandezza, Gianfranco Fini (che i serbi di Krajina, probabilmente esagerando, indicano fra i loro «contatti politici») sottolinea: la scelta dei volontari italiani è «un gesto di ribellione estrema all’ultranazionalismo croato che mal sopporta la presenza italiana in Istria, Quarnaro e Dalmazia»39. Più decisi si è nelle sedi del Msi nel Nord-Est, dove la vicinanza alla frontiera si fa sentire. Secondo l’ex deputato missino Renzo de’ Vidovich, un dalmata che da Trieste «coordina i rapporti tra i serbi e i 300 mila esuli dalmati e istriani», «il Battaglione Garibaldi esiste». E la ragione ne è che «in Istria e Dalmazia vi sono circa centomila serbi, allarmati da una possibile futura pulizia etnica attuata dai croati di Tud-man. Perciò essi cercano un’alleanza con la minoranza italiana restata in Dalmazia»40.

L’avanguardia, quanto a rapporti con i serbi, è però tenuta da Sergio Giacomelli, il consigliere regionale del Friuli-Venezia Giulia – anch’egli di An – più votato a Trieste alle ultime elezioni41.

2P ur senza nutrire alcuna inclinazione sentimentale per i serbi piuttosto che per qualunque altra parte in conflitto, Giacomelli in effetti non cerca affatto di nascondere di aver intrattenuto frequenti relazioni politiche con «esponenti sia di Belgrado, che di Knin o di Pale», incontrati nel corso degli anni a Trieste come nella ex Jugoslavia, dove il rischio di essere strumentalizzati dalla controparte è alto42.

Distinguendosi da un certo irredentismo «romantico», questo avvocato triestino ama soprattutto atteggiarsi a un certo realismo. A lui, la costa della Dalmazia settentrionale, o solo la città «troppo bella per lasciarla ai croati», paiono fuori portata: «La Dalmazia era piuttosto un dominio della Repubblica di Venezia, la presenza italiana non vi è mai stata decisiva come in Istria». Piuttosto, per quest’ultima l’esperienza della RsK è dunque interessante: «La Krajina ha dimostrato che ci si può rendere indipendenti dalla Croazia. Avevano tutte le caratteristiche di uno Stato riconoscibile: indipendenza, sovranità, capitale, tolleranza internazionale di fatto… Perché non può esserlo l’Istria?». Giacomelli fa tuttavia valere anche una ragione di ordine pratico per cui la Dalmazia, al contrario della penisola istriana, è dovuta restare fuori dalle mire italiane. A lui che ha tenuto continui colloqui con i più vari rappresentanti serbi (pur «privilegiando la destra») non sfugge affatto che Knin è stata sì un partner con cui trattare, se non altro per la convergenza di interessi anticroata e per il peso che pur sempre la RsK ha avuto nel mondo serbo. La Krajina tuttavia non era in grado di promettere alcunché, e soprattutto non la Dalmazia: «La politica serba del doppio binario, con Knin e Pale armati da Belgrado ma orientati diversamente, ha segnato un punto di svolta quando Tud-man e Milošević si sono spartiti la Bosnia e la RsK è stata svenduta alla Croazia. E grazie ai nostri incontri noi abbiamo potuto rendercene conto per tempo», spiega il consigliere regionale di An, ricordando come nell’ultimo anno di guerra, il progressivo venir meno del supporto militare di Belgrado a Knin, in funzione e in cambio della convenuta spartizione della Bosnia con Zagabria, ha di fatto condannato a sicura estinzione l’autoproclamata repubblica.

Echi di questo distinguo venutosi a delineare tra Belgrado e Knin, in effetti, si avvertono (a partire dagli ultimi mesi di guerra) anche sulla sponda opposta dell’Adriatico. Due giorni prima della fine della sua entità politica – lo abbiamo visto – Martić invocava ancora un partage italo-serbo di Zara. Qualche mese prima, ormai in rottura con Milošević e semmai schierato per una «riunificazione» con i serbi di Croazia, anche il leader secessionista serbo-bosniaco Radovan Karadžić andava in questo senso: «L’Italia ci riconosca, sarà un contributo per la pace. (…) Ci guadagnate la Dalmazia. Potete prendere in considerazione la possibilità di ritornare in Dalmazia. Ma soprattutto dovete farlo perché è giusto» 43. Meno sbilanciato è invece il capo dell’esercito serbo di Bosnia Ratko Mladić, i cui legami con Belgrado – notoriamente più stretti di quelli di Karadžić – lo porteranno ad essere accusato da quest’ultimo, nell’estate del ’95, di non aver fatto il possibile perché la RsK non fosse investita dall’esercito croato e dalle unità croato-bosniache provenienti da Bihać e dalla Krajina bosniaca. «Dovreste rivendicare l’Istria», spiega Mladić agli italiani (altrove specificando: «La valle del fiume Isonzo»), «e le isole dell’Adriatico»44.

Il generale evita dunque di menzionare la terraferma dalmata, «limitandosi» alle sue isole (senza del resto specificare quali). Un gradino più in là in questa rassegna di provocazioni, che curiosamente segnalano la varietà delle posizioni interne alla parte serba sull’idea stessa di «Grande Serbia», l’allora ministro degli Esteri della Federazione serbo-montenegrina Vladislav Jovanović. Il quale preferisce concentrarsi tout court sull’Istria: «La Croazia occupa un territorio a tutti gli effetti italiano. L’Istria non è a nessun titolo croata. Un forum internazionale che si occupasse dei confini interni ed esterni di quella che viene detta ex Jugoslavia dovrebbe rendervi giustizia»45.

No, piuttosto che fantomatici battaglioni Garibaldi pronti a dare l’assalto su Zara (o piuttosto che un esercito italiano a Zara senza mandato internazionale), la ragione per non perdere contatto con i serbi, di qualunque fazione essi siano, è di altra natura. «È semmai più interessante», osserva Giacomelli, «la proposta serba di offrirci l’Istria in cambio della neutralità nel conflitto jugoslavo. Quando Fini, Tremaglia e Menia andarono a Belgrado, la sola richiesta avanzata dai serbi fu di rimanere veramente neutrali», fa notare. E proprio una reale e completa neutralità italiana è stato l’oggetto dei numerosi colloqui dell’esponente neofascista: «Quello che loro ci chiedevano era di non permettere che dai nostri porti partissero le missioni di sorveglianza dell’embargo sulle armi ai serbi o che dai nostri aeroporti partissero gli attacchi sui serbi di Bosnia. La nostra neutralità si sarebbe dunque dimostrata decisiva in favore di Belgrado» visto che, nell’ottica di Giacomelli, «Ungheria e Austria sono neutrali mentre Romania, Bulgaria e Grecia sono a favore della Serbia». E «con l’Italia neutrale, non sarebbe partito da qui un solo aereo, una nave o un soldato; i serbi dunque avrebbero vinto la guerra e nella riformazione di uno spazio jugoslavo ci sarebbe spettata l’Istria, avendoci fatto sapere di essere disposti a lasciarla fuori; avremmo incassato senza che l’Italia alzasse un solo dito». Suonano in questa luce meno rassicuranti gli argomenti di Fini, il quale, all’epoca del governo Berlusconi, si richiamava alla distinzione di Helsinki tra inviolabilità e intangibilità delle frontiere: «Noi le frontiere nord-orientali non vogliamo toccarle. A meno che ciò non s’inscriva nel quadro di negoziati bilaterali (…)»46.

L’Istria così, disincagliata dalla Croazia, sarebbe in un primo momento autonoma, in un secondo indipendente e in un terzo reintegrata, di fatto se non formalmente, all’Italia. Del resto quel che conta, per Giacomelli, è la sovranità di fatto: «Un’Istria indipendente che cosa può essere se non un nuovo Stato di San Marino, che ha moneta e giurisdizione italiana? Cipro Nord è in realtà Turchia, i Territori Occupati sono Israele, e in questo senso anche l’Istria sarà Italia».

Ufficialmente condotta a titolo personale, questa «politica neutralista» dell’esponente triestino di An è nondimeno sfociata in un abbondante numero di interpellanze ufficiali del partito all’assemblea regionale del Friuli-Venezia Giulia (firmate da tutti gli aderenti al gruppo). Nelle quali si protesta per esempio contro «i folli propositi» di utilizzare le basi aeree di Aviano e Campoformido o le basi navali di Trieste e Monfalcone per interventi Nato nella ex Jugoslavia; oppure «contro ogni rischio di importare in Europa (…) il conflitto balcanico, nei confronti del quale la neutralità assoluta appare come l’unica politica che paga»47. «La Nato non ci obbligava a intervenire. I serbi possono farcela pagare duramente», sostiene Giacomelli. Lo stesso Fini è d’accordo: «Un intervento militare contro la Serbia (…) è impensabile, perché scatenerebbe la sua rappresaglia. Probabili obiettivi, le basi aeree e portuali del Nord-Est e le città adriatiche, da Trieste ad Ancona, da Aviano a Venezia (…)»48.

Sulla medesima linea, ma un anno dopo, Ratko Mladić: «Noi non possiamo certo applaudire se i bombardieri partono dai vostri aeroporti (italiani, n.d. a.). Potevano farli alzare dalla Turchia, dalla Grecia: hanno scelto voi! Sanno che potrebbe accadere che qualcuno possa far scoppiare delle bombe, qua e là per l’Italia»49.

«Tornassimo insieme al governo, una politica estera parallela come quella di An del Nord-Est non sarebbe tollerabile», osserva a proposito di tutto ciò Livio Caputo50, responsabile Esteri di Forza Italia ed ex sottosegretario agli Esteri con delega per l’ex Jugoslavia (dimenticando però che il culmine di questa «politica estera parallela» è appunto coinciso con la stagione di Berlusconi e Fini al governo).

«Non esiste alcuna politica parallela. La politica del partito è una e viene decisa a Roma e coordinata da me. Se altri ha impostazioni diverse, può: siamo in un partito democratico» 51, 2è invece il punto di vista di Tremaglia. Il quale però non coincide in tutto con quello dello stesso Giacomelli: «Con la formazione dell’alleanza elettorale con Forza Italia (all’inizio del 1994, n.d. a.), una delle condizioni posteci fu che non si avanzassero più rivendicazioni territoriali. La posizione di Fini all’interno fu che si rendeva comunque conto che gli esponenti del Nord-Est possono avere idee e comportamenti diversi. È evidente che il gruppo dirigente non può più prendere iniziative come quella del viaggio a Belgrado del ’91. Ma posso assicurare che io incontro i serbi, ascolto e riferisco a chi di dovere. Tremaglia, del resto, mi difende».

Certo, dal 1991 in poi uno strabismo fra linea nazionale e linea del Nord-Est, più vicino ai Balcani e quindi «costretto» a valutarne le evoluzioni diversamente, non è caratteristica del solo Msi-An. La Democrazia cristiana ha fatto scuola in proposito52. Ma una sequenza di episodi, dall’«apoteosi» elettorale all’estate del ’94, è illuminante delle ragioni di geopolitica interna che spingono Fini a dare briglia sciolta ai suoi a Trieste. A fine marzo 1994, il Polo delle libertà e del buongoverno vince le elezioni politiche. An passa dal 5,4% al 13,5%: di gran lunga il miglior risultato della sua storia. In un anno il partito è passato dall’«esilio in patria», al rischio di estinzione dovuto alla virtuale assenza di alleati nel sistema maggioritario, alle poltrone di governo53.

R esta il cruccio che, nel momento in cui si tende ad accreditare del partito un’immagine nuova e finalmente moderna, i 2/3 dei voti ottenuti siano raccolti da Roma in giù: nel Sud arretrato 54. A cavallo e al di sopra della linea gotica – dove l’esperienza repubblichina del ’43-’45 ha radicato una tradizionale diffidenza nei confronti del neofascismo – solo il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino-Alto Adige superano la media nazionale. Con una punta in particolare a Trieste, da decenni roccaforte del partito proprio in virtù del suo richiamo nazionalista. An vi ottiene il 22,9% e Fini (ancora una volta presentatosi nel capoluogo friulano: la terza occasione in soli due anni sarà alle europee di giugno) un suffragio nella quota proporzionale 55.

La difforme distribuzione del peso elettorale di An sul territorio nazionale è una conferma per il segretario che – pena la meridionalizzazione del partito – è indispensabile non inimicarsi il gruppo triestino, da sempre a lui favorevole. In questo senso, il margine di manovra di Fini nei confronti delle forze che lo hanno espresso è tutt’altro che illimitato. Un mese più tardi, a governo appena formato, Tremaglia solleva le critiche dei suoi stessi alleati chiedendo che si ridiscuta il Trattato di Osimo, inclusa la parte sui confini56. Il 10 maggio, Radio Knin annuncia che l’amministrazione di An «conferma» di aver ricevuto una lettera in cui il «presidente» Milan Martić chiede «un incontro urgente fra le delegazioni dei nostri parlamenti (…) per concludere accordi su questioni di comune interesse»57. An al governo rappresentava per Knin un’occasione troppo ghiotta per non cercare di sfruttarla. Da un lato la RsK, potendo vantare tali «amici», avrebbe assunto maggiore peso nei confronti di Belgrado; dall’altro, Martić è mosso probabilmente dall’intento di segnalare al nuovo governo italiano Knin e non Belgrado quale interlocutore a cui rivolgersi, un po’ come Milašinović aveva fatto per la Belgrado serba in competizione con quella federale nel 1991 58.

Come che sia, la lettera di Martić sembra fare effetto: in giugno il primo ministro Borislav Mikelić può far sapere che si recherà a Trieste su invito del gruppo dirigente regionale di An, e che intende «rendere agli italiani ciò che loro appartiene» 59. Poi, da Radio Knin, il silenzio: non si parlerà più né di questa visita, né di altri contatti bilaterali.

Cos’era successo? «Fui io a bloccare la cosa», dichiara Fini al Piccolo sfumando sulle forti pressioni che dovette ricevere dal ministero degli Esteri in proposito, «ritenevo che non fosse politicamente saggio dar corso a una sorta di politica estera parallela» 60.

Ma anche qui, Sergio Giacomelli ha un’altra versione: «Sì, Fini in effetti in un’intervista disse di aver fermato l’iniziativa. Ma a me non ha mai detto niente in questo senso; come a Roma sanno bene, la delegazione di Knin è arrivata a Trieste e ci siamo visti in una sala del Consiglio regionale, con tutti i membri del gruppo di An (…)» 61.

Conclusioni

Dicono che un alto papavero dello HDZ, partito di governo a Zagabria saldamente controllato da Franjo Tud-man, così commentasse l’avvento della destra al potere a Roma: la radicalizzazione in Italia è conveniente, perché «crea spazio per rafforzare la nostra posizione in Istria, attraverso la polizia, l’esercito e gli organi esecutivi» 62.

Vera o solo verosimile, quest’analisi si potrebbe rovesciare senza che perda alcunché della propria pertinenza: l’indurirsi della stretta di Tud-man sull’Istria fa il gioco degli «imperialisti italiani», perché li conforta nella loro crescente intransigenza. Poco importa che gli italiani in Istria e nella dominante Dieta democratica istriana (il cui autonomismo cela appena il profondo distacco nei confronti del potere centrale croato) siano un’esigua minoranza. Sparita dalla carta, la Repubblica serba di Krajina avrà almeno centrato l’obiettivo – che gli sopravvive – di avvelenare ulteriormente i rapporti tra Zagabria e Roma. Gli oltranzisti dell’una e dell’altra parte ringraziano.

Inutile chiedersi però se il giovane leader di An nutra ancora i fermenti irredentistici che dettero il via alla sua vorticosa ascesa. Lo stravolgimento geopolitico dei Balcani ha coinciso con quattro o cinque altrettanto lunghi anni per gli eredi di Giorgio Almirante, dopo i quali niente comunque sarà come prima. Certo è che Gianfranco Fini non è uomo da rischiare di giocarsi le proprie possibilità di concorrere un domani alla poltrona di primo ministro per aver, oggi, troppo voluto l’Istria. Ma il suo ambiguo filoserbismo, soprattutto perché ambiguo (fondato com’è sull’idea che conviene comunque allearsi con i più lontani perché sono lontani contro i più vicini perché sono vicini), ha fin qui contribuito solo ad allontanare l’Italia dalle potenze occidentali e, in genere, dal concerto delle nazioni che, in mancanza di una qualunque politica europea comune, fa sentire la sua voce. In un racconto di Franz Kafka, una scimmia faticosamente trasformatasi, pur di sopravvivere, in uomo «in quasi cinque anni», «a notte fonda (…) si diletta ancora alla maniera scimmiesca». Così gli esponenti di An hanno tratto dai loro colloqui (che proseguono) con la controparte serba la convinzione che nonostante Dayton «la Croazia farà la stessa fine della Jugoslavia» e che «se non siamo più in grado di fare una guerra, almeno possiamo cercar di trarre benefici da quelle altrui» 63.

Altro articolo di LIMES, sempre sullo stesso argomento, stavolta sui toni più economici e mette molto in risalto il rapporto con gli interessi tedeschi e quelli italiani di confine

QUESTIONE ISTRIANA O ISTRIANISCHE ANGELEGENHEIT

Un approccio puramente economicistico al problema dell’Istria può risvegliare i fantasmi dell’irredentismo italiano e dell’imperialismo germanico. Nella penisola adriatica sono in gioco gli interessi di molti Stati. Una proposta al nostro governo.
di Antonio Sema
ARTICOLI, CROAZIA, SLOVENIA, EUROPA, ITALIA
PICCOLA PENISOLA DELL’ALTO ADRIATICO passata attraverso diverse dominazioni (di cui quella veneta fu la più importante), sempre abitata da popolazioni diverse, l’Istria perse l’essenziale componente italiana con l’arrivo di Tito, quando se ne andarono in 350 mila (gli esuli). A rinsanguare gli sloveni e i croati rimasti, arrivarono genti slave di varia provenienza. Nel 1991, il confine sloveno-croato divise in due la regione, e nel 1992 si aprì il contenzioso tra i nuovi Stati e l’Italia, sulla revisione degli Accordi di Osimo con cui era stata ceduta a Belgrado la parte dell’Istria che già controllava – pur senza piena sovranità – mentre il resto ce l’avevano già tolto col Trattato di pace. Intanto, sul versante italiano del confine, si lucrava sul piccolo traffico di frontiera e sull’import- export verso i Balcani. Fu bello e conveniente, allora, giocare alla piccola vetrina dell’Occidente per gli slavo-comunisti.

Fu quando ridivennero slavi, che non bastò più conciliare gli affari con la corrosione ideologica dell’avversario nelle zone più suscettibili a tale strategia. E anche questo fu Alpe Adria. Già alla fine degli anni Ottanta il mercato dell’Europa orientale era un magnete che attirava politici e imprenditori del Nord-Est. L’Italia nord-orientale, uscita dal dominio asburgico tra il 1866 e il 1918, non ci mise molto a convincersi che il suo futuro economico, culturale e financo etnico, sarebbe stato meglio tutelato da un solido aggancio con i paesi dell’Est, inglobati nella Mitteleuropa. Nomen est omen: tutto riconduceva ai vecchi padroni d’oltr’Alpe, e tutti lo sapevano, ma senza farci caso. Importava di più che l’anello di congiunzione tra il Nord-Est e l’Eldorado mitteleuropeo fosse la Slovenia, dove già operavano precursori quali Standa, Pacorini e Tripcovich. Li seguirono Melzi Segre, Fiat Iveco, Zoppas, Illy; e con loro Saffa, Benetton e tante altre aziende del Nord-Est. Per tutti, il buon andamento dei rapporti con la Slovenia era garanzia di buoni affari.

Ma la Slovenia era pure l’anello di congiunzione tra l’Italia e i due piccoli Stati balcanici insediatisi in Istria, come eredi di quella Jugoslavia che, 45 anni prima, aveva strappato quella terra proprio all’Italia. E nel 1918 l’Italia l’aveva tolta all’Austria-Ungheria, più di un secolo dopo che gli Asburgo avevano ricevuto la penisola dalla Francia, che l’aveva acquisita a sua volta dalla Serenissima all’atto della sua scomparsa… Solo storia? Anche, ma se agli Stati qui ricordati (o ai loro successori) si aggiungevano Germania e Stati Uniti, era fatto anche l’elenco degli Stati che, solo nel 1994, avevano ritenuto di esser titolati a interloquire nella questione istriana. Poi, naturalmente, c’erano gli istriani.

Interesse nazionale e interessi di confine

Con tanti interessi attorno all’Istria, pare evidente che la revisione di Osimo debba uscire dalla routine per identificare e tutelare interessi chiari per la controparte, come per l’Italia. Valorizzare la questione in veste di tutela degli esuli anche per coinvolgere precisi interessi elettorali… È stato fatto, e pesantemente, pure nel 1994. Poi le elezioni finiscono, la Farnesina spiega che non è revanscista, Lubiana fa intravedere possibili turbamenti dei rapporti economici e gli imprenditori del Nord-Est spiegano quanto poco contino gli interessi degli esuli rispetto al valore «infinitamente maggiore» della posta economica in gioco (240). I politici appena eletti li ascoltano compunti. Il richiamo di Alleanza nazionale ai «diritti storici» dell’Italia su Istria, Fiume e la Dalmazia, risuona così bene a Nord-Est da averne motivato l’esclusione dalla nuova giunta regionale del Friuli-Venezia Giulia formata da Lega Nord, Forza Italia e Partito popolare.

La scelta del fattore economico come unico interesse da tutelare al confine nordorientale significa allineare il Nord-Est con Lubiana perché ambedue premano su Roma per scongiurare contromisure economiche slovene. Una paura profonda, incentivata da politici italiani e sloveni abili nel disegnare scenari esaltanti a cui far seguire delusioni, su cui imbastire nuove promesse. Ad esempio, nel 1992 il Friuli-Venezia Giulia era convinto che sul suo territorio si sarebbero incrociate ben quattro direttrici: la Trieste-Lubiana-Budapest-Kiev, la Trieste-Fiume-Spalato-Tirana, l’asse Adriatico-Baltico e il rafforzamento della ferrovia Venezia- Trieste-Tarvisio-Vienna. Il primo passo, modesto «ma strategicamente importante», era il collegamento fra le reti autostradali di Italia e Slovenia (da Gorizia e Trieste a Prevallo). Già allora la società Adria aveva ottenuto l’assegnazione del progetto da parte del governo sloveno, ma nulla era successo (241), né alcunché successe più tardi, anche se ancora a gennaio del 1994, il sindaco Illy assicurava che i lavori sarebbero partiti «presto» (242).

A giugno, Adria si sciolse causa gli «ostacoli insormontabili» da parte slovena, nonostante l’Italia avesse già stanziato 98 miliardi. E sfumava pure il coinvolgimento italiano nell’autostrada da Lubiana all’Ungheria, un affare da un miliardo di dollari, che «sembrava » a portata di mano dei soci di Adria, ossia Fiat Impresit, Autovie Venete e Autostrada Venezia-Padova (243). Il miraggio svanì, danneggiando imprese del Nord-Est, giusto due settimane prima dell’incontro italo-sloveno di Trieste. Una settimana dopo l’Araba Fenice volava nuovamente lungo una direttrice ad alta velocità fra Trieste e il Nord Europa sino a Mosca e San Pietroburgo, completata da un corridoio dall’Adriatico al Mar Nero attraverso i Balcani (244).

In predicato non era la serietà delle proposte, ma l’uso politico che ne veniva fatto per condizionare forze costrette a subire. Come poteva reagire l’industria friulana, che realizzava circa un terzo dell’export con la Slovenia e per il resto dipendeva dall’area tedesca, donde e soltanto partiva la distribuzione per il suo «triangolo della sedia», che fatturava duemila miliardi all’anno (245)? Come spiegava Melzi Segre, al Friuli serviva integrarsi con Austria, Slovenia e Croazia e sistema Nord-Est per proiettarsi verso l’area danubiana. Dunque, Slovenia e Croazia dovevano entrare in Europa (246), e pazienza se ciò annullava l’intera strategia negoziale della Farnesina, basata proprio sul controllo dell’accesso alla Ue. Alla Confindustria bastava rafforzare l’integrazione e la cooperazione industriale con la Slovenia, come area di transito verso l’Europa centrale e orientale. La finanza veneta voleva gestire il Nord-Est, lasciando il Nord-Ovest alla Cariplo. Ma poi l’accorpamento delle varie Casse di Risparmio dell’area doveva agganciarsi con Baviera e Austria, alla luce delle grandi intuizioni di Alpe Adria e di stimati politici locali come Biasutti, Bernini o De Michelis (247). Ed erano nomi e progetti che circolavano anche in Friuli, e a Trieste, con la «forte coincidenza di idee» tra il ministro Andreatta e l’Assindustria triestina (248).

Invero, qualcuno vedeva nella Slovenia un concorrente anziché un partner, ma veniva rapidamente zittito asserendo trattarsi di mero conflitto di interessi tra chi aveva già investito a Capodistria (come l’imprenditore-sindaco Illy) e chi era rimasto fermo a Trieste (249). Per i valori ideali dell’apertura a Est, andava bene tutto, purché fosse mitteleuropeo. Il nemico da battere era il nazionalismo irredentista: prima di Mani Pulite era lo stesso.

Dal 1994 entrava nel quadro anche Silvio Berlusconi. Negli anni Ottanta egli aveva lavorato con Telecapodistria, e nella guerra del 1991 i suoi ponti-radio erano pronti a garantire i collegamenti di Lubiana col mondo esterno. E già un mese dopo le elezioni, Illy segnalava l’accordo tra Lubiana e la nuova maggioranza sul rispetto di «alcune condizioni» per rivedere Osimo: pur con differenze sui «modi» dell’accordo, l’intesa sugli obiettivi era già raggiunta (250). Poi, con una calcolata gaffe, Berlusconi rovesciava una posizione storica della Farnesina rivendicando la «reciprocità di trattamento tra le diverse minoranze» (251) e, per concludere, il 16 luglio spiegava come Osimo riguardasse questioni «importanti forse nel principio, ma non nelle dimensioni concrete» (252). Illy confermava che i due imprenditori-politici erano d’accordo sulla «piena collaborazione» con la Slovenia (253).

Ma col «buon senso» imprenditoriale non si arrivava molto lontano, se (con azzeccata scelta dei tempi) si faceva coincidere la riunione dell’iniziativa centroeuropea a Trieste con il decreto Biondi. Le richieste italiane si riducevano infatti sino a diventare microscopiche: restituzione agli esuli dei beni confiscati e ancora posseduti dallo Stato sloveno, modifica della legislazione slovena in materia di proprietà immobiliari e ricorso al veto solo se Lubiana fosse stata «intransigente» (254). Così, dunque, la nuova maggioranza aveva cominciato a muoversi sul terreno internazionale. Tre mesi prima, il ministro degli Esteri Martino aveva promesso che Lubiana non sarebbe entrata nella Ue «senza aver smantellato » il confine interno dell’Istria e restituito i beni agli esuli, anticipando per il dopoguerra un «ruolo di tutela» italiano sulla penisola, sulle linee di quello austriaco per l’Alto Adige (255). Ma come riuscirci quando proprio allora la stampa slovena paragonava l’Italia «a una sorta di repubblica delle banane» (256)?

I confini intoccabili e gli altri

Nella parte litoranea dell’Istria slovena (di antica tradizione italiana) si trova l’unico porto della Slovenia, rinserrato fra tre confini internazionali, di cui uno marittimo, tutti gravati da qualche contenzioso. Il confine più tranquillo è quello italo-sloveno, intoccabile per definizione. Per primo il segretario di Stato americano aveva ammonito l’Italia a non toccare i confini della seconda guerra mondiale con la ex Jugoslavia, mettendo in discussione Osimo (257). Poi, dopo che il presidente francese Mitterrand e quello tedesco Herzog avevano messo in guardia l’Europa sui «pericoli del modello italiano» (258) alla Conferenza sulla stabilità in Europa, l’Italia e la Russia bloccavano l’inserimento di Lubiana nella lista dei candidati all’ingresso nell’Ue (259); o forse erano state Germania e Francia a caldeggiarne l’inserimento ricevendone «un rifiuto molto energico» (260). A luglio l’Austria criticava le pretese italiane di bloccare l’accesso sloveno nella Ue, che rischiavano di creare un «precedente» in tutta Europa. Confermando la disponibilità a mediare tra Roma e Lubiana, Vienna negava di voler riaprire «l’altro punto dolente subalpino », quello altoatesino (261). In realtà, Eva Klotz era già in piena attività, e più tardi il terrorista Karl Ausserer avrebbe ricominciato a minacciare. Da Bonn, intanto, giungeva la «preghiera» di non esacerbare la polemica con la Slovenia per non scatenare le richieste dei profughi tedeschi (262). Ad agosto, infine, Bonn comunicava i termini dell’arbitrato sul confine italo-sloveno. La formula era quella di un’intervista alla Repubblica del ministro degli Esteri tedesco Kinkel, ma il significato era inequivocabile. I successori della Wilhelmstrasse interloquivano nelle faccende adriatiche perché «estensione» e «capacità economiche» della Germania avevano conferito a quel paese «un peso particolare» all’interno e all’esterno della Ue. Il diritto di Bonn discendeva dunque dalla sua forza, e questa dispensava dalle sottigliezze diplomatiche. La Germania aveva così deciso che: la questione dei beni e dei risarcimenti era già definita da accordi vincolanti; le «singole questioni» andavano discusse a livello bilaterale, ma non in relazione «con l’avvicinamento della Slovenia alla Ue»; Lubiana doveva garantire parità di trattamento per l’acquisto di beni patrimoniali. Bonn riteneva superflua una sua eventuale mediazione (263). La sistemazione riguardava solo uno dei tre confini internazionali del litorale sloveno, lasciando impregiudicati gli altri due tra Slovenia e Croazia, all’interno dell’Istria e lungo il mare davanti a Capodistria. Su questi gravavano «irrisolti problemi confinari», per giunta incattiviti da «una serie di incomprensioni» che stavano condizionando a tale punto i rapporti tra i due paesi, che l’interscambio era sceso dagli 8 miliardi di dollari del 1990 a 1,3 miliardi nel 1993. Nel 1994, le previsioni si fermavano a 800 milioni (264).

Prospettive dell’Istria slovena

L’intangibilità del confine italo-sloveno non garantiva i confini vicini, non assicurava l’impermeabilità dell’area italiana dai contraccolpi del contenzioso sloveno-croato, non tutelava la minoranza italiana: garantiva solo che quest’ultima avrebbe subito il destino degli abitanti dell’Istria. In altri termini, se l’Italia doveva curarsi degli esuli e della minoranza italiana in Istria (3 mila individui in Slovenia e 27-30 mila in Croazia) non poteva trascurare come i beni dei primi e le vite dei secondi condividessero la sorte della popolazione dell’Istria, circa trecentomila persone, per lo più croati e sloveni, ma anche slavi immigrati dopo il 1945 e istriani che si riconoscevano solo come abitanti della loro terra. Attraverso il confine intoccabile l’Italia si agganciava all’Istria e alla sua gente che per comodità (ma impropriamente) chiameremo «istriani». I quali istriani, dalle prime elezioni libere del 1990 a quelle del 1993, avevano sempre votato in controtendenza rispetto ai loro concittadini. Nel 1990, a fronte del trionfo nazional-liberale di Demos in Slovenia e dell’esaltato nazionalismo dell’Hdz in Croazia, gli istriani votarono a sinistra finché non si affermò un partito locale, la Dieta democratica istriana (Ddi), che nel 1993 aveva il 72% dei voti nell’Istria croata. Nella parte slovena prevaleva ancora la sinistra, con la Ddi al 6%. Questa zona aveva caratteri particolari, in parte tipici dell’area confinaria che da Capodistria a Nuova Gorizia presentava caratteristiche omogenee e un alto sviluppo economico, paragonabile solo a quello di Maribor. Ma il Capodistriano era specifico perché aveva l’unico tratto di costa della Slovenia, l’unico porto e un fiorente turismo balneare, nonché due confini terrestri, l’uno segnato dalle spinte verso l’integrazione transfrontaliera verso l’Italia, l’altro dal disinteresse verso la Croazia, e uno marittimo carico di problemi. In questa parte dell’Istria, spiegava il giornalista del Piccolo Paolo Rumiz, un’immigrazione senza radici aveva ridotto gli istriani a una minoranza, mentre si era affermata una nuova classe dirigente legata a Lubiana. Ma ogni delegazione internazionale in visita al porto rendeva questa élite capodistriana più sicura della sua forza economica rispetto al resto del paese. Non casualmente, quando Lubiana aveva tentato di sminuzzare gli enti locali per rafforzare la sua autorità centrale, Capodistria aveva risposto con l’accorpamento intercomunale dell’intera area costiera.

I molti problemi dell’Istria croata

Le più chiare indicazioni sulla peculiarità istriana arrivavano dall’Istria croata che non ce l’aveva fatta ad uscire «dal grigiore generale» dell’economia croata: nel primo trimestre del 1994 l’export della penisola era sceso del 54% rispetto al 1993 (265). Ma l’istriano aveva cominciato a riflettere e a far di conto. S’era accorto che Zagabria attuava una strategia per controllare «in tutto e per tutto» la vita politica, economica, sociale e culturale dell’Istria (266). Sapeva che il partito di Tudman, l’Hdz, aveva acquisito il controllo delle prime dieci banche della Croazia, e tra queste c’erano la Banca Fiumana (18,5% del capitale bancario croato) e la Banca di Pola (267). Poi vedeva che nel 1993 Zagabria aveva speso in armamenti oltre tre miliardi di dollari, cioè più di tre volte l’introito complessivo del turismo istriano. Alla fine, l’istriano concludeva che la Croazia era la palla al piede dell’economia istriana, se non la sanguisuga che assorbiva la linfa vitale della penisola; perciò votava la Ddi, che spiegava le «pessime condizioni» dell’economia istriana con il controllo statale sulle aziende e con quello dell’Hdz sui loro consigli di amministrazione (268).

La posta in gioco era il controllo dell’economia istriana, e soprattutto del suo turismo. La Ddi aveva successo perché lottava contro lo strangolamento dell’Istria da parte di Zagabria. Il suo regionalismo era una strategia credibile, e non violenta, per assicurare quella ricchezza agli istriani, in cui la parità linguistica fra italiano e croato era cruciale per sostanziare l’identità della regione e poter chiedere una specifica amministrazione regionale. I guai veri sarebbero arrivati con la pace, quando le ricchezze istriane avrebbero pagato le spese della guerra croata.

Per alcuni osservatori, proprio questo aveva causato e incancrenito la «grandissima frattura» fra Tudman e «tutta la gente, filocroati in testa, della costa» (269). Gli istriani dovevano difendere la propria ricchezza, ma Zagabria doveva impadronirsene, liquidando al tempo stesso la Ddi. Doveva riuscirci, perché altrimenti i croati avrebbero regalato alla Krajina molto di quello per cui s’era combattuto dal 1990: in una Croazia ristabilita nei suoi confini, infatti, ogni risultato acquisito dall’Istria, nel settore dell’autonomia, diventava uno «scomodo precedente» per lo status della Krajina (270). Peggio ancora se questa fosse rimasta libera, perché Zagabria avrebbe avuto bisogno di rivalersi altrove.

Ipotesi per un’azione italiana verso l’Istria

L’interesse per la questione istriana nasce dal pensiero che il passaggio cruciale per l’Italia non è la guerra nei Balcani, che non la riguarda, ma la pace che la concluderà. Allora l’Istria e la Krajina condizioneranno la vita politica croata assieme ai contrasti tra sloveni e croati. Milioni di persone cominceranno a fare i conti con la spoliazione delle loro ricchezze da parte di élite corrotte e voraci, scatteranno le richieste salariali ingabbiate dalla guerra e nuovi leader cercheranno di affermarsi. Molti, allora, guarderanno all’Istria, alle sue ricchezze, alla pace goduta mentre gli altri combattevano. Come essere certi che nessuno attenti alla loro sicurezza, quando per rabbonire le popolazioni disorientate le élite locali son solite inventarsi perfidi nemici interni? E questo accadrà a ridosso del Nord-Est, là dove sagaci imprenditori nostrani hanno investito e trescato con quelle élite che ora presenteranno il conto. Per non rischiare una tragedia, converrebbe cautelarsi affinché nulla accada alla penisola e ai suoi abitanti. La minaccia non viene solo da Zagabria. La trama diplomatica italo-sloveno-croata nel 1994 evidenzia come la Slovenia abbia usato lo spauracchio del fascismo irredentista per mascherare una profonda crisi interna, con un ministro della Difesa (Janez Jansa) destituito per oscure trame e (forse) un tentato golpe, e una mezza dozzina di ministri sostituiti, per lo più per corruzione. È legittimo che Austria e Germania tutelino questo Stato, ma l’accurata sistemazione che Bonn ha tracciato per il nostro confine pare oltrepassare l’amicizia e rivelare il filo del burattinaio. E se non è questo, allora segnala la presenza di forti interessi germanici lungo il medesimo confine: tutte cose improprie, e spetta a Bonn, Vienna e Lubiana garantirci che così non è.

Si faccia salva la certezza dei confini, bene, ma si chiedano compensi per non impugnare la successione slovena e croata negli Accordi di Osimo su cui i giuristi sono tutt’altro che concordi. L’Italia non ha interesse a escludere la Slovenia e nemmeno la Croazia dall’Ue, ma non può rischiare di introdurvi situazioni conflittuali senza prima averle risolte. Lubiana, che pure ha un pluriennale contenzioso territoriale in Istria con la Croazia, dice di aver concordato con Zagabria una linea comune su Osimo: le crediamo, ma così il contenzioso tra Roma, Lubiana e Zagabria s’è fatto interdipendente (271), moltiplicando i dubbi sul suo futuro europeo. E quale spazio può trovare nella Ue uno Stato che (Adria docet) effettua rappresaglie economiche? Quella immagine da piccolo gangster balcanico non si addice alla civilissima repubblica mitteleuropea nostra vicina. O forse sì? Ma possono i gangster entrare in Europa? Fin da subito, invece, si impari da chi è più bravo di noi. In sintesi: perché accettare che altri chiedano all’Italia di moderare le sue richieste per non scatenare i profughi tedeschi o, addirittura, gli estremisti sloveni, e non pretendere invece la ragionevolezza altrui per non lasciare via libera ai pericolosi irredentisti di Alleanza nazionale? Non sono provocazioni, ma constatazioni: e se agli altri è concesso e all’Italia no, c’è il rischio che dalla preghiera all’arbitrato si arrivi al Befehl.

Nell’attesa, conviene impostare la questione istriana legando la tutela degli attuali interessi del Nord-Est alle garanzie per il loro sereno futuro, nel mantenimento della piena sicurezza ai confini nordorientali dell’Italia. Questa esigenza primaria della pace a ridosso dei nostri confini impone di considerare l’Istria terra di interesse italiano in qualità di area d’insediamento della nostra minoranza, e zona a rischio nella situazione attuale e in quella potenziale della crisi balcanica. L’interesse italiano primario è di lasciare che le cose si sviluppino senza prevaricazioni da parte di alcuno. Il regionalismo non è al servizio degli interessi italiani, tutt’altro, ma non ne urta alcuno, mentre si trova in rotta di collisione con quelli croati e sloveni. Per garantire pace e stabilità ai nostri confini occorre evitare questa fatale collisione lasciando che le libere forze dell’economia e della politica facciano democraticamente il loro corso in terra d’Istria, eliminando l’assurdo confine interno che danneggia tutti.

Occorre dunque che in una matura concezione dell’interesse nazionale italiano trovi spazio una nuova percezione della questione istriana che sostituisca al ricordo nostalgico o rancoroso la concreta valutazione dei molti risvolti della presenza italiana nell’area. Per dare continuità a tale nuovo approccio potrebbe essere utile un’Agenzia istriana (modellata sull’Agenzia ebraica) che rappresenti uno stimolo all’azione governativa, esplichi un’efficiente lobbying ai livelli richiesti, accentri e potenzi il know-howe disponga delle risorse finanziarie per affrontare organicamente e continuativamente le problematiche dell’area istriana e adriatica, a difesa di una terra che non si protegge con le armi, ma con la collaborazione culturale ed economica.

Che le cinque potenze attuino la pace di Bosnia, se ne saranno capaci. L’Italia, intanto, esiga che la Croazia rispetti i diritti umani e quelli delle minoranze, ben sapendo che la pace dell’Istria garantirà indirettamente una sistemazione accettabile per altre aree di crisi, tra cui le Krajine. Una serena revisione di Osimo, che stabilizzi la frontiera nordorientale, servirà alla causa della pace nei Balcani. Ma per essere coerente e amichevole, tale intervento dovrà valutare nella sua interezza la questione istriana, e affinché Zagabria non sia spinta ad azioni inconsulte per depredare le ricchezze istriane converrà assicurarle risorse adeguate perché non sia tratta a passi estremi. Dunque il nostro paese deve impegnarsi nella ricostruzione postbellica della Croazia, cominciando intanto a costruire quelle strade verso l’Europa sempre bloccate da Lubiana (ma può entrare in Europa uno Stato che impedisce ad un altro di comunicare con essa?), a garanzia che l’Istria possa svilupparsi in pace e l’Italia possa avviare i suoi commerci nelle direzioni più convenienti. Non si tratta di filantropia: in un contesto balcanico pacificato si aprirebbero migliori prospettive per l’economia italiana, e ne guadagnerebbe la stabilità ai nostri confini.

L’esigenza di proiettarsi lungo le coste adriatiche è sentita anche nel Nord-Est, che non potrebbe rifiutare un nuovo mercato che da Venezia via Trieste e l’Istria si estendesse, attraverso Dalmazia e Albania, sino alla Grecia. Conveniamo: qui si mastica poco di Mitteleuropa, ma in compenso vi si può trovare ancora il Leone di San Marco.

Dunque pace e collaborazione internazionale, aperta a tutti. Ne beneficierà il Nord-Est, che potrà fare i suoi affari con i paesi dell’Est e ne beneficierà ogni azienda italiana desiderosa di accedere alle facilitazioni di una «legge adriatica di sviluppo» in cui troveranno adeguata sistemazione tutti gli strumenti di legge e finanziari per impostare un’organica azione di ricostruzione e collaborazione con gli Stati vittime della guerra nei Balcani.

E andrà coordinata anche l’azione delle Regioni italiane, oggi orientate in ordine sparso verso la zona, valutando il caso di completare Alpe Adria con una Fraternità adriatica che raggruppi le regioni e gli Stati le cui coste si bagnino nell’Adriatico. C’è molto da fare per lo sviluppo e la razionalizzazione del turismo balneare, della pesca, dei traghetti e dei porti nonché dell’ecologia, in un arco che dalla Puglia risalga sino al Golfo di Venezia e ridiscenda lungo la costa istriana e della Dalmazia, sino a quella albanese e greca. Il cuneo mitteleuropeo che si protende verso l’Adriatico deve essere imbrigliato dalla collaborazione tra le due sponde dell’Adriatico che si saldano in Istria. Per suggellare questo futuro sarebbe opportuno studiare una grande cerimonia di riconciliazione delle genti di confine, che potrà essere fatta una volta sola, e dovrà restare incisa nella sensibilità degli uomini e delle donne di quelle zone. La storia delle nostre genti e la loro voglia di futuro indicheranno la strada. Agli amici tedeschi spiegheremo quali e quanti fantasmi susciti un’egemonia germanica anche nell’Alto Adriatico. Hanno a loro disposizione un continente; lascino ad altri le sue coste, e dimostrino, e non solo lungo il Reno, che non sono quelli che furono. Quale migliore garanzia di un’equilibrata leadership germanica in Europa della rinuncia ai «mari caldi»? Aboliamo gli imperialismi, amici tedeschi, e aboliremo anche gli irredentismi. E poi, così saremo più tranquilli che dietro alla deriva mitteleuropea del Nord-Est ci sia solo un’intensa voglia di fare affari e di recuperare le proprie tradizioni culturali.
 
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view post Posted on 8/3/2017, 13:36     +1   -1
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Interessante articolo. Che fa riflettere amaramente su che gigantesca occasione ci siamo lasciati sfuggire. Riprendere quei territori che ci erano stati sottratti ingiustamente dopo meno di 50 anni. Una cosa insperata, visto quanto sembra lontana oggi. Una tempistica ancora ottima, visto che all'epoca erano ancora vivi, seppur in la con gli anni, molti esuli giuliano-dalmati, ancora non c'era stata l'intensa integrazione europea odierna, ancora residuava qualche parvenza di ideologia nazionalistica-irredentistica oggi praticamente cancellata.

Un paese con cui avevamo firmato un trattato tempo prima che si stava sfaldando, un confine labile e un'occupazione che poteva essere condotta con una certa facilità.
Oppure l'idea di mantenere la totale neutralità favorendo una possibile vittoria serba.

Allucinanti le dichiarazioni di Rauti e Tremaglia, che se non fossero già morti andrebbero idealmente processati per tradimento. Emerge invece abbastanza bene la figura di Fini, all'epoca era ancora una persona più o meno stimabile, radicalmente diversa dall'individuo che è diventato oggi.
Poi certo, ci sono tutta una serie di ambiguità, di differenti posizioni e di differenti settori della politica italiana e serba, però è evidente la tendenza generale della Serbia a cercare un possibile aiuto da parte dell'Italia e il suo essere favorevole alla revisione dei confini a nostro favore.
Interessanti anche la dichiarazioni di Mladic e Karadzic, cioè i due famosi presunti criminali di guerra condannati dal presunto Tribunale dell'Aja sul quale ho sempre avuto parecchi dubbi.

Insomma, pur se tra diverse difficoltà e ambiguità appare del tutto evidente che qualcosa si poteva fare. Io mi chiedo come accidenti è possibile avere una classe politica così pavida e così incapace che pure davanti ad un'incredibile opportunità offerta su un piatto d'argento non faccia assolutamente nulla, preferendo restare nella sua piccolezza ostentata e con l'ostinata e incrollabile volontà di non dare mai fastidio a nessuno, anche se converrebbe, e di essere sempre e comunque servile e legata alla volontà di qualcun altro.

Adesso è molto più difficile, la situazione perfetta è passata. Mi ricorda un po' la questione della guerra franco-prussiana del 1870. Dopo solo 10 anni ci si offriva incredibilmente l'occasione di riprendere Nizza dopo la sua scandalosa cessione. E anche li, i governanti italiani hanno preferito fregarsene.
Siamo i maestri delle occasioni perse. Per pavidità, insipienza, mancanza di coraggio o per una patetica dimostrazione di fedeltà a chi non ci ricambierebbe mai il favore.

Sarà cinico dirlo e da infami sperarlo, ma la nostra sola possibilità è un'altra guerra nei Balcani. Ora appare molto meno probabile, ma le tensioni latenti ci sono, il passato vorrà pur dire qualcosa, l'odio fra diverse etnie non è mai scomparso. C'è solo da augurarsi che prima o poi riesploda.
 
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istrobianco23
view post Posted on 9/3/2017, 23:20     +1   -1




Entrambi gli articoli risultano tristemente illuminanti.
Nel primo emergono notevoli ed inusitate (almeno per me) discordanze nelle valutazioni della situazione, "perfino" nella allora destra Italiana, all'opposizione dal '91 al '94 nel parlamento italiano. Tra i protagonisti citati mi pare che quello che risulti più pragmaticamente irredentista sia il consigliere regionale Giacomelli (purtroppo troppo isolato). Inusitato (sempre per me)quanto gravissimo il diktat di FI ad AN del '94 sulle precondizioni di rinuncia totale a riaprire la questione confinaria con l'ex Jugoslavia, nel caso di vittoria delle elezioni politiche e "conquista" del Governo. Questo a mio parere è il vero di anello di congiunzione col secondo articolo dove risulta chiarissimo come, con motivazioni complementari (anche se non identiche) USA e Germania ostano nettamente a mettere in discussione il "tranquillo confine italosloveno".
Qui sono inoltre ben descritti redivivi specchietti per le allodole (nuove versioni della "zona franca" di Osimo, mai applicata peraltro) di ordine economico, sui presunti grandi benefici economici per le aziende italiane conseguenti alla conferma dell'intangibilità del confine uscito da Osimo. Mettendo insieme tutti questi elementi, senza scordare il non trascurabile dettaglio per cui i Serbi hanno fatto sempre proposte "restitutive" di territori MAI sotto il loro controllo, la prima considerazione che sorge spontanea è:
1) la classe politica nostrana compresa la destra parlamentare giunge completamente impreparata al cospetto della crisi jugoslava e nel corso degli anni continua a mostrare sostanziale impreparazione, indifferenza o esplicita ostilità verso gli argomenti irredentisti ad essa connessi.
2) L'ostilità e l'indifferenza conseguono soprattutto alle posizioni filoslovene e filocroate di USA e Germania.
3) In tali condizioni, considerato che le posizioni "filoirredentiste" nel nostro parlamento erano ridotte ai minimi termini: una parte di MSI-AN e forse una porzione del PRI (Susanna Agnelli, fu l'ultimo ministro degli esteri ad opporsi all'ingresso della Slovenia in UE senza condizioni) direi che il risultato negativo che conosciamo fosse se non certo, almeno probabile al 99%.

Che cosa si sarebbe potuto/dovuto fare per provare ad invertire tale tendenza? Ecco un possibile "calendario ucronico"
1) Sostenere da subito la Dieta democratica istriana per approfondire irreparabilmente il solco economico e politico fra l'Istria croata e Zagabria ed iniziare a scavarne un altro fra il capodistriano e Lubiana, facendo capire ai Serbi che questo era l'unico vero aiuto indiretto che potevano ricevere.
2)Per questa operazione sarebbero stati fondamentali personaggi pragmatici del calibro di Giacomelli, che con la collaborazione trasversale dell'ANVGD avrebbero dovuto cercare sponde in settori di "destra" della DC, del PRI e dopo la dissoluzione del PSI anche di settori veneti della Lega Nord. In questo modo, probabilmente, si sarebbe creato un inaspettato interesse competitivo verso la DDI e l'Istria anche di qualche esponente del PDS.
3) Entro il '92/93 dunque questa collaborazione trasversale avrebbe dovuto accrescere esponenzialmente lo scontento della DDI a mantenersi in Croazia tale che echi chiari di ciò non solo giungessero a Zagabria ma pure in USA ed in Germania.
4) A quel punto gli USA e di conseguenza anche la Germania avrebbero dovuto accettare che erano gli istriani a volere cambiare il loro status dall'interno e quindi erano meritevoli di essere tutelati nel loro processo di distacco da missioni ONU o NATO in cui l'Italia avrebbe dovuto avere un ruolo guida stabilizzante. Questo secondo me anche il momento più opportuno in cui l'Italia avrebbe dovuto denunciare all'ONU Osimo chiedendo anche una revisione almeno parziale del trattato di Parigi.
5) Croazia e Slovenia sono costrette ad accettare lo scambio: riconoscimento delle loro indipendenze in cambio della perdita di territori in Istria che dopo un periodo di 2 anni, di amministrazione ONU-NATO a guida italiana, in cui profughi e discendenti possono realmente tornare, vota a grande maggioranza il ritorno in Italia.
6) Croazia e Federazione SerboMontenegrina si spartiscono pacificamente la Bosnia
7) Inizia un processo politico (ancora in corso) che riporti pacificamente in Italia anche Fiume e Quarnaro ed alla costituzione di uno stato Dalmata indipendente.
 
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view post Posted on 10/3/2017, 01:02     +1   -1
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Il problema era, paradossalmente, la mancanza di conflittualità effettiva nei territori istriani e carsici. Per questo la soluzione unicamente diplomatica non poteva avere successo. Era necessario mettere in campo qualcosa che dimostrasse la precisa volontà italiana di cambiare il confine, contro le possibili proteste degli "alleati".

Quindi l'ideale sarebbe stato l'invio di un contingente di 4-5.000 uomini, dispiegato da Capodistria a Pola, come forza di teorica interposizione. Il pretesto ovvio era la difesa della minoranza italiana in zona, e il rinnegare il trattato di Osimo, non riconoscendo ovviamente l'indipendenza di Slovenia e Croazia. A quel punto si poteva anche restare a guardare l'evolversi della situazione. Questa cosa avrebbe anche potuto favorire indirettamente la Serbia.

Per fare questo però serviva un governo decisionista, con un interesse preciso nella revisione dei confini, e soprattutto in grado di andare oltre al ragionamento "non facciamo nulla che dia fastidio ai nostri alleati anche se sarebbe a nostro vantaggio".
 
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istrobianco23
view post Posted on 10/3/2017, 10:06     +1   -1




Mi associo ad Adriate, con le puntualizzazioni ulteriori:
a) con la morte di Tito il nostro servizio di intelligence avrebbe dovuto portare ai nostri governi una qualità e quantità di informative anticipate tali, da arrivare più preparati alla crisi del '91.
b) col coinvolgimento dell'ANVGD le seppur minime parti politiche parlamentari di opposizione ma anche di governo (fino al '92 il PSI era vitale per la sussistenza del pentapartito) sensibili a temi irredentisti dovevano sostenere ed indirizzare il movimento autonomista istriano verso la rottura nei confronti di Zagabria e Lubiana, mettendo USA, Germania ed altri alleati di fronte al "fatto compiuto" che l'Istria o gran parte di essa manifestasse l'intenzione politica di staccarsi dal resto dell'ex-jugoslavia. Tale nuova oggettiva situazione nel solco del "diritto di autodeterminazione dei popoli" avrebbe incontrato favore anche in settori del PDS.
c) Alla dichiarazione di indipendenza di Slovenia e Croazia, l'Italia avrebbe denunciato Osimo con richiesta di revisione parziale del trattato di Parigi con dislocamento di una "forza di interposizione" di almeno 15.000 uomini (5.000 potevano essere sufficienti solo per la linea Capodistria-Dragogna-Quieto) da Capodistria a Pola a tutela degli scissionisti italofoni e non della DDI.
 
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Leonard Woods
view post Posted on 10/3/2017, 22:26     +1   -1




PERCHÉ L’ITALIA HA FALLITO NELLA EX JUGOSLAVIA

3/09/1994

All’inizio della crisi, il nostro governo ha sostenuto l’inefficace azione comunitaria per convergere poi sulla posizione tedesca. Un’eccessiva proiezione nazionale’ verso quell’area è irrealistica e destinata all’insuccesso.
di Marta DASSÙ
ARTICOLI, BALCANI, EUROPA, ITALIA
È DIFFUSO, ANCHE TRA GLI OSSERVATORI europei, il giudizio che l’Italia abbia avuto un ruolo marginale nella gestione occidentale, peraltro fallimentare, del conflitto nella ex Jugoslavia.

La marginalità dell’Italia di fronte ai processi esplosivi in atto alle sue frontiere orientali viene fatta dipendere dalla gravità nella crisi politica interna, che comunque avrebbe impedito al nostro paese di svolgere una qualsiasi politica estera. Questa tesi si combina a una seconda convinzione: l’Italia non ha mai chiaramente definito i propri interessi nazionali e quindi ha fallito il suo primo appuntamento geopolitico del dopo-guerra fredda, la riscoperta della frontiera orientale.

Questo articolo cerca di ricostruire in modo sintetico l’evoluzione della risposta italiana alla crisi jugoslava. La conclusione a cui si arriva, attraverso un esame del genere, è questa: l’Italia era convinta che rientrasse nei suoi interessi il mantenimento di una Jugoslavia unita e ha quindi cercato, fino al novembre del 1991, di muoversi abbastanza attivamente per rendere reale questa ipotesi.

Una volta che – data la decisione tedesca di riconoscere Slovenia e Croazia – la partita è stata giudicata persa, Roma si è decisamente spostata sulla linea di Bonn, cercando di derivarne qualche vantaggio in extremis. Da quel momento in poi, tuttavia – sotto l’impatto della crisi interna, della semiparalisi di politica estera tipica del ministero Colombo e della crescente impotenza occidentale ad arrestare il conflitto – il ruolo diplomatico italiano è diventato del tutto secondario. Naturalmente, incoerenza e insuccesso accomunano la maggior parte delle politiche europee e la Comunità nel suo insieme: la traiettoria seguita da Roma nella seconda metà del 1991 è la stessa percorsa dalla Cee, che l’allora ministro degli Esteri De Michelis giudicava in modo ottimistico come il foro più adatto per la gestione della crisi jugoslava.

Ciò che caratterizza la risposta italiana non è quindi il suo – scontato – insuccesso. È piuttosto una buona dose di ambiguità e di incoerenza. Di fronte alla crisi jugoslava, dall’Italia sono venuti messaggi in effetti contrastanti: dagli incoraggiamenti alle spinte separatiste dalle regioni del Nord-est e nell’ambito di fori come Alpe Adria; all’appoggio alla leadership federale da parte del ministro degli Esteri.

A ciò può aggiungere una seconda constatazione: se il ruolo dei paesi confinanti appare in teoria cruciale nella prevenzione delle crisi, il test della Jugoslavia mostra che l’Italia non è riuscita a svolgere su questo piano nessuna funzione efficace. La serietà della crisi economica – punto su cui Roma insisterà nel 1990-’91 – fu riconosciuta troppo tardi; le lezioni della crisi del Kosovo furono sottovalutate nei vari incontri bilaterali con Belgrado e con Milosevic; la necessità di pensare a nuovi assetti confederali fu presa in esame in ritardo, quando la divisione del paese era ormai nei fatti.

Una volta scomparsa la Jugoslavia, il problema essenziale, per l’Italia, è di uscire dall’ambiguità per definire con chiarezza una visione strategica del proprio approccio all’area balcanica e adriatica.

Era possibile salvare la Jugoslavia?

Una delle teso di fondo dei responsabili di allora della diplomazia italiana è che la Federazione jugoslava avrebbe potuto essere salvata, nel 1990-’91, con un forte appoggio esterno al premier Ante Markovic. Secondo l’ex ambasciatore a Belgrado Sergio Vento, il mancato sostegno finanziario americano e tedesco e la dilazione del piano di aiuti approvato dalla Cee (3 miliardi di dollari per il triennio 1991-’93) sono fra le cause più importanti del fallimento dell’ultimo tentativo di tenere in vita un qualche assetto unitario (370). Ancora più nettamente, l’allora ministro degli Esteri De Michelis ha sostenuto che «sarebbe probabilmente bastato varare un piano di aiuti alla Jugoslavia per 1-3 miliardi di Ecu (1.500-4.500 miliardi di lire di allora) per convincere Slovenia e Croazia a rinunciare alla secessione»; ma che ciò non fu possibile per l’opposizione della Gran Bretagna (371).

Conclusioni del genere colgono due dati importanti: da una parte, la riluttanza occidentale a sostenere finanziariamente la Jugoslavia dopo il 1989, come evidente riflesso del declino dell’interesse strategico per questo paese nel dopo-guerra fredda; dall’altra, le divisioni intereuropee, come motivo di paralisi della Comunità.

È altrettanto probabile, tuttavia, che un’azione finanziaria della Cee non sarebbe a quel punto stata sufficiente a frenare le spinte centrifughe: la crisi interna alla Federazione jugoslava era ormai andata troppo oltre, senza che nessuno dei partner comunitari, inclusa l’Italia – e cioè un paese che per ragioni storiche e di vicinanza geografica avrebbe dovuto dedicare ai Balcani un’attenzione particolare – avesse mostrato di esserne realmente consapevole.

L’elemento abbastanza paradossale e che, essendo divisa e non disposta a destinare risorse massicce (economiche o militari) allo scenario balcanico, la Comunità abbia comunque assunto – rispetto al dichiarato disimpegno americano – un ruolo essenziale nella gestione della crisi (372); così che il conflitto jugoslavo ha finito per diventare (pochi mesi prima della firma del Trattato di Maastricht) un test anticipato di una politica estera e di sicurezza comune ancora da costruire. Anche senza accettare l’ipotesi che proprio l’Italia abbia attivamente incoraggiato il basso profilo americano (373) per promuovere il ruolo internazionale della Cee, si tratta di un approccio perfettamente coerente alla diplomazia «euroottimistica» di De Michelis.

L’interesse italiano a una Jugoslavia unita

In questo contesto, la linea ufficiale del ministero degli Esteri italiano è stata caratterizzata, fino al giugno 1991, dalla tesi che fosse possibile tenere in vita la Federazione jugoslava; e poi, dall’estate fino al novembre 1991, dal tentativo di favorire (nel quadro comunitario e facendo leva sulla conferenza di pace presieduta da lord Carrington) la nascita di una nuova «confederazione democratica» (374). È importante chiarire che l’Italia aveva interessi specifici (cioè ulteriori rispetto all’obiettivo condiviso dagli occidentali di dissuadere un precedente significativo per l’Urss) a mantenere unita la Federazione e a impedire un conflitto destabilizzante nei Balcani.

Essi possono essere schematizzati in cinque punti:

• La Jugoslavia era considerata uno dei perni per il rilancio del ruolo italiano nell’area danubiano-balcanica. Non va dimenticato, infatti, che Roma aveva visto nella svolta europea del 1989 l’occasione per affermare un proprio ruolo di «ponte» o di cerniera fra l’Europa centrale e i Balcani, attraverso l’avvio della cosiddetta Quadrangolare (un forum per la cooperazione regionale fra Austria, Italia, Ungheria, Jugoslavia, cui poi si sono aggiunte Polonia e Cecoslovacchia e che ha infine assunto il nome di Iniziativa centroeuropea) (375). Con la disintegrazione della vecchia Federazione e con lo scoppio della guerra, la funzione dell’Italia e il suo progetto di integrazione regionale sarebbero stati fortemente penalizzati: lo provano, appunto, la crisi immediata del forum sponsorizzato da Roma (376) e la perdita relativa di peso dell’Italia negli sviluppi successivi dell’Iniziativa centroeuropea, che ha teso di fatto a spostare il suo asse di gravità verso la Mitteleuropa.

• L’Italia aveva tutte le ragioni per temere, dopo il precedente drammatico dell’esodo dall’Albania nell’agosto 1991, che la guerra fra le repubbliche provocasse una nuova ondata di rifugiati verso le coste italiane. In realtà, il flusso dei rifugiati dalla ex jugoslavia è stato per ora abbastanza contenuto (377), anche per i provvedimenti di chiusura presi dall’Italia. In forma latente, la percezione italiana del conflitto jugoslavo si è progressivamente spostata dai timori di ripercussioni dirette alle proprie frontiere alla convinzione di potere «isolare» una guerra paradossalmente sentita, se si fa eccezione per Trieste e le regioni di confine, come piuttosto lontana ed estranea. Fino al 1992, anche i problemi relativi alla sorte della minoranza italiana (35 mila persone circa, in Istria e Dalmazia) sono rimasti secondari – un dato destinato, come si vedrà fra poco, a creare polemiche interne.

• Alla fine degli anni Ottanta, l’Italia era il secondo partner commerciale della Jugoslavia in Europa occidentale e soprattutto, come segnalava l’accordo con Belgrado del gennaio 1988 (378), puntava a sviluppare i suoi interessi economici nell’area, utilizzando fra l’altro gli strumenti agevolati della cooperazione allo sviluppo – un’ipotesi di proiezione economica bloccata bruscamente dalla guerra e non compensata, anche per l’assenza di nuovi progetti di cooperazione da parte italiana (379), dai rapporti con Slovenia e Croazia.

• Il successo delle spinte secessionistiche nella ex Jugoslavia avrebbe potuto incoraggiare spinte simili in Italia, in Alto Adige in particolare (ciò spiega fra l’altro il particolare interesse all’accordo definitivo con l’Austria, nel 1992, sulla questione altoatesina) (380).

• La creazione di due Stati indipendenti (Slovenia e Croazia) avrebbe diviso, con l’Istria, la minoranza italiana, indebolendone il peso contrattuale nell’assetto postfederale. Se i rapporti con Belgrado erano stati ormai regolati sulla base del Trattato di Osimo, la dissoluzione della Jugoslavia avrebbe aperto di nuovo contenziosi apparentemente risolti – cosa che dal punto di vista di Roma, decisa a scartare qualunque ipotesi irredentista, creava problemi piuttosto che opportunità.

• Il crollo della Jugoslavia apriva un vacuum rischioso nei Balcani, aggravando i conflitti latenti fra Grecia e Turchia e complicando il tradizionale tentativo italiano di mantenere buone relazioni con entrambe.

Quanto alla gestione della crisi, il governo italiano ambiva a svolgere – attraverso i suoi rapporti stretti con i vari pezzi della vecchia Federazione e collocandosi in una posizione sfumata di «riformismo» confederale – un ruolo di mediazione. Sia rispetto alla Comunità, scegliendo una posizione in qualche modo intermedia fra Germania e Francia e tentando, con una sorta di diplomazia dei paesi confinanti, di tenere agganciata l’Austria alla politica comunitaria (una scelta avviata, anche se senza successo, dal maggio 1991 in poi); sia rispetto alla Jugoslavia, puntando a moderare le spinte secessionistiche e a tenere aperti i canali con Belgrado (fino al contestato incontro di Colombo con Milosevic nel gennaio 1993). In realtà, l’uscita dell’Italia dalla trojka comunitaria nel luglio 1991, cioè proprio nella fase acuta di avvio del conflitto, segnava un ridimensionamento immediato delle sue possibilità di influenza nella gestione della crisi. Non solo: la conduzione di una linea di questo genere era complicata da pressioni interne di segno diverso, e cioè di chiaro incoraggiamento alle tesi separatiste. Per essere più precisi, l’esplosione della crisi balcanica metteva subito a nudo l’esistenza di una buona dose di ambiguità nell’approccio italiano a quell’area.

Le due politiche danubiane

La scarsa coerenza della posizione italiana può essere vista attraverso la successione di due delle iniziative principali di cooperazione regionale nell’area danubia no-balcanica: l’Alpe Adria e la Quadrangolare-Pentagonale. La seconda è stata in genere presentata come lo sviluppo naturale della prima, varata alla fine degli anni Settanta per promuovere, sulla scia degli accordi di Helsinki, contatti interregionali fra Est e Ovest. Fra i due fori, entrambi proiezione degli interessi italiani nell’area, esiste invece una differenza sostanziale. Mentre Alpe Adria era basata sulle regioni (e includeva quindi Slovenia e Croazia, assieme al Friuli-Venezia Giulia, al Veneto, al Trentino, alla Lombardia), la Quadrangolare-Pentagonale, ideata da Budapest e lanciata da Roma, era fondata sugli Stati e includeva quindi Belgrado.

In un certo senso, la prima era espressione di una tendenza al regionalismo che nel vecchio contesto bipolare incontrava confini molto netti, ma che dopo il 1989 avrebbe invece assunto – anzitutto nel caso della Jugoslavia, poi in quello della Cecoslovacchia – un effetto disgregatore delle vecchie unità multinazionali. La seconda, concepita a cavallo del 1989, puntava a creare un’area di cooperazione funzionale (381) fra Stati collocati in modo diverso nei due vecchi blocchi, bilanciando il peso dominante della Germania (Alpe Adria include invece anche la Baviera) o perlomeno offrendo qualche canale alternativo ai vicini dell’Est. Si trattava, insomma, di due impostazioni solo teoricamente complementari; e anzi destinate a entrare in contraddizione rispetto ai nuovi problemi emersi dagli scenari balcanici del post Ottantanove. Sulla base di questa doppia impostazione dei problemi della cooperazione nell’area danubiano-balcanica, dall’Italia sono infatti venute due visioni differenti e parallele della risposta da dare alla crisi della Federazione jugoslava.

È progressivamente emersa l’esistenza di uno scarto fra la linea «antiseparatista» del ministero degli Esteri – che poteva contare su un ampio consenso parlamentare – e l’approccio prevalente nelle regioni del Nord-Est, che hanno invece teso, con il sostegno decisivo di una parte della Dc (Piccoli, come presidente della commissione Esteri del Senato) e del Vaticano, di settori locali dei partiti laici, di una componente rilevante dei mass media, a caldeggiare la causa separatista. Quanto mai significativa la diversità di reazioni alle dichiarazioni di indipendenza di Slovenia e Croazia (giugno 1991): mentre il ministro degli Esteri De Michelis ribadiva ancora una volta al presidente della Slovenia Kucan la priorità di mantenere unita la Federazione, la sessione dell’Alpe Adria, all’inizio di luglio, si concludeva dichiarando l’appoggio e la solidarietà delle regioni italiane agli sforzi indipendentisti di Lubiana e Zagabria (382).

L’esistenza di due diversi assi di azione – ed entrambi parte della «tradizione» della politica italiana nei Balcani – contribuisce a spiegare l’apparente facilità con cui il governo italiano, dopo avere difeso a lungo l’obiettivo dell’unità della Jugoslavia, abbia potuto improvvisamente presentarsi nel dicembre 1991 come uno dei principali sponsor, assieme alla Germania, del riconoscimento delle due repubbliche confinanti della ex Jugoslavia.

La scomparsa del paese confinante

Una volta sancita la divisione della Jugoslavia e in un contesto di generale declino del ruolo negoziale della Cee, l’Italia è venuta a trovarsi in una posizione marginale, accentuata dalla crisi politica interna.

Se nella cornice della Comunità il peso di Roma era in teoria abbastanza rilevante, nel quadro dell’Onu – che a partire dai primi mesi del 1992 assumeva una responsabilità primaria nella gestione della crisi – le cose cambiavano, dato il ruolo decisionale del Consiglio di sicurezza e dati i limiti imposti alla partecipazione di forze di peace keeping dei paesi limitrofi (nel caso specifico, le offerte italiane di mettere a disposizione dell’Unprofor più di un migliaio di uomini hanno incontrato il veto serbo, cui si è associata la Croazia) (383). L’Italia ha in parte cercato di bilanciare questa sua marginalità sfruttando la posizione di presidente di turno dell’Ueo (dal giugno 1992), l’organismo cui sono state assegnate le operazioni di monitoraggio navale delle sanzioni nel Mare Adriatico (384). Ha partecipato al ponte aereo su Sarajevo nel luglio-settembre 1992 (fino all’abbattimento di un velivolo italiano); e ha poi preso parte ad altre operazioni di carattere umanitario. Ma nell’insieme si è trattato – per riprendere l’espressione di un autorevole diplomatico italiano – di una «non-politica, finita del resto nel calderone delle non-politiche di tutti».

Come gli altri paesi europei, l’Italia ha teso progressivamente a escludere la possibilità di utilizzare strumenti militari per un peace enforcement in Bosnia ,e ha piuttosto puntato su uno scenario di «isolamento» (il cordone sanitario) del conflitto alle proprie frontiere orientali. Nel dibattito della primavera 1993 su una possibile opzione militare condotta dalla Nato, il governo italiano ha sottolineato due punti: la necessità di un mandato specifico dell’Onu (considerato come fonte indispensabile di legittimazione politica); il valore essenzialmente dissuasivo della minaccia dell’uso della forza, come leva per spingere Belgrado a dissociarsi dalla guerra in Bosnia. Come in molti altri paesi occidentali, i militari si sono espressi più nettamente contro l’opportunità di un intervento militare, giudicato troppo difficile per la situazione sul terreno e troppo costoso in termini di vite umane. Da parte loro, i nuovi ministri della Difesa e degli Esteri hanno dichiarato che in caso di azione Nato su mandato dell’Onu l’Italia avrebbe fatto fronte alle proprie responsabilità (concedendo basi di appoggio alle forze terrestri e aeree). Al tempo stesso, Roma non ha accolto le proposte americane sulla revoca dell’embargo contro la vendita di armi ai musulmani bosniaci: una linea tenuta da Colombo e poi confermata, dal maggio 1993 in poi, da Andreatta.

Nella polemica interatlantica della primavera 1993 sulla risposta alla guerra in Bosnia, quindi, il governo ha condiviso la linea «europea», potendo del resto contare – aldilà di proteste verbali sull’impotenza occidentale da parte di esponenti di quasi tutti i partiti – su una stabile maggioranza parlamentare (385).

Con l’intervento diretto dalla Nato a sostegno del peace keeping dell’Onu (la dichiarazione di una no fly zone sui cieli della Bosnia), l’Italia è in effetti venuta a trovarsi in una situazione poco agevole: e cioè la situazione di una base logistica di primo piano per l’attuazione di missioni cui l’Italia stessa non partecipa, in virtù delle già citate norme limitative delle Nazioni Unite.

La nascita del revisionismo italiano

Da tutto quanto si è detto fin qui, risulta chiaro che il governo italiano ha visto nella disgregazione della Jugoslavia una fonte di rischi, più che di opportunità da sfruttare per ridefinire, a proprio vantaggio, i problemi bilaterali lasciati in eredità dalla storia e regolati con il Trattato di Osimo del 1975.

Sebbene una pane degli analisti abbia giudicato «opportunistico» l’atteggiamento italiano (in particolare, si fa riferimento al memorandum di intesa sulle minoranze firmato con la Croazia il 15 gennaio 1992, al momento del riconoscimento da parte della Cee) (386), Roma ha in realtà tenuto sullo sfondo le questioni bilaterali fino alla fine del 1992, scegliendo una linea di continuità: valga ad esempio la reazione (una «presa d’atto» positiva) alla decisione slovena di subentrare alla Jugoslavia nella gestione dei trattati già stipulati con l’Italia (luglio 1992).

Questo tipo di impostazione ha incontrato però riserve crescenti all’interno: in termini molto schematici, e come ho in parte già anticipato, è emerso in Italia (a partire da Trieste e dalle regioni di Nord-Est) un partito «revisionista», con posizioni più o meno moderate, che vanno dalla richiesta di restituzione dei beni persi dagli esuli (300 mila persone circa) in Istria e in Dalmazia, alla denuncia del Trattato di Osimo, una volta crollato il contraente originale degli accordi del 1975 (e diviso fra Slovenia e Croazia il territorio coperto dal Trattato).

In questo contesto, all’inizio del 1993 l’Italia ha deciso di aprire colloqui con Slovenia e Croazia sulla revisione dei termini degli accordi di Osimo. È forse superfluo sottolineare che il governo – in polemica con le tesi irredentiste, appoggiate a livello nazionale solo dal Movimento sociale – ha nettamente e ripetutamente escluso qualunque ipotesi di revisione dei confini: per riprendere la motivazione di Andreatta, si ritiene fra l’altro che l’Italia, di fronte all’instabilità dell’Europa centro-orientale, abbia tutto l’interesse a preservare i confini sanzionati a Helsinki (387).

Roma ha invece dichiarato di puntare, nei negoziati bilaterali con Slovenia (già in corso) e Croazia, a maggiori garanzie per le minoranze italiane e a una revisione delle condizioni economiche collegate all’accordo del 1975: in particolare, è stato sollevato di nuovo (388) il problema dei beni abbandonati dagli esuli. Come mezzo di pressione, l’Italia ha affermato che condizionerà il suo assenso ad un eventuale ingresso della Slovenia nella Cee alla soluzione dei problemi bilaterali. Va comunque ricordato che il governo italiano aveva già minacciato di opporsi alla firma (aprile 1993) dell’accordo di cooperazione economica della Cee con Lubiana, monito poi lasciato cadere (389). Se scarsi progressi sono stati compiuti anche sul problema della tutela della minoranza italiana (la Slovenia non si è associata al memorandum firmato da Zagabria, che ha poi a sua volta sollevato la questione della reciprocità per la propria minoranza in Italia), è d’altra parte probabile, in prospettiva, una maggiore convergenza di interessi con la Slovenia piuttosto che con la Croazia, con cui i rapporti si sono seriamente deteriorati nel corso del 1993.

In particolare, Lubiana sembra intenzionata a bilanciare in qualche modo l’influenza austro-tedesca attraverso lo sviluppo dei contatti con le regioni del Nord-Est italiano. Lo indica fra l’altro la scelta di declinare un finanziamento austriaco per la Costruzione dell’autostrada Sentilj-Zagabria e di promuovere invece l’autostrada Trieste-Budapest (390). L’orientamento sloveno a favore di un asse Italia-Ungheria – che valorizzerebbe la collocazione di Lubiana e il ruolo di Trieste come ponte verso l’Est – e inteso chiaramente in competizione con la Croazia e con il suo ruolo nei progetti austro-tedeschi relativi allo sviluppo dell’Europa del Sud-Est.

Se in teoria l’Italia ha interesse a evitare un’aperta concorrenzialità fra le due ex repubbliche della Jugoslavia (la cui divisione ha segnato anche la divisione territoriale della minoranza italiana),i rapporti con Zagabria attraversano una crisi evidente, che fra l’altro rispecchia il dissenso della popolazione istriana rispetto alla politica di Tudman. Le ultime elezioni amministrative (febbraio 1993) hanno visto una netta affermazione della Dieta democratica istriana, che punta a trasformare l’Istria in una regione autonoma transfrontaliera (391). Come risposta, Tudman ha accusato l’Italia di «imperialismo» e ha denunciato (maggio 1993) la incostituzionalità di tutti gli atti che mirano a preservare o a introdurre il bilinguismo in Istria. Da parte sua, il governo italiano ha assunto una posizione più dura non solo sul problema della tutela della propria minoranza ma anche sulle responsabilità croate nella guerra, dichiarandosi favorevole a valutare l’applicazione di sanzioni Onu contro Zagabria.

Esistono parecchi argomenti a favore della tesi che l’Italia, dopo la fine del conflitto nei Balcani, avrebbe tutto l’interesse a promuovere nuove forme di integrazione regionale; e che potrebbe farlo più efficacemente se agisse in un quadro comunitario, puntando a trasformare l’Adriatico in una grande via di comunicazione e di cooperazione fra l’Europa centrale e quella sudorientale. Per fare un esempio concreto e circoscritto, uno degli obiettivi possibili per l’Italia (la sostituzione della zona franca, prevista dagli accordi di Osimo, con un’area limitata di libero scambio) potrebbe essere più agevolmente avanzato come parte dei rapporti di cooperazione fra la Cee e i nuovi Stati indipendenti dall’Europa centrorientale (392). In termini sintetici – e discutendo gli interessi a lungo termine dell’Italia nell’area balcanica, una discussione che è rimasta in realtà del tutto sullo sfondo di fronte al conflitto nella ex Jugoslavia – l’Italia dovrebbe puntare a integrare Slovenia e Croazia nello Spazio economico europeo, per favorire la nascita di una sorta di «polo» adriatico. Se il primo obiettivo può contare sull’appoggio di vari altri paesi europei, Germania inclusa, il secondo è invece destinato a entrare in competizione con il peso e la forza d’attrazione dell’area renana (393). Una scelta del genere implicherebbe però sia una visione strategica – e cioè la definizione di una vera e propria politica adriatica, non confinata esclusivamente alle regioni di Nord-Est – sia la destinazione di risorse sufficienti a sostenerla: due fattori che sono per ora mancati.

È possibile che l’Italia continuerà ufficialmente a promuovere la necessitàpriorità di una politica comunitaria nei Balcani. Se, tuttavia, le difficoltà del quadro europeo lasciassero spazio crescente alla «rinazionalizzazione» delle politiche estere, potrebbero aumentare le pressioni favorevoli a sfruttare in chiave nazionale le «opportunità» aperte dalla disgregazione della Jugoslavia. Una politica balcanica più assertiva implicherebbe probabilmente un recupero dei contatti con Belgrado; una forte dose di competizione con la Germania; e possibili convergenze con la Russia. Alternativamente, l’Italia potrebbe ambire, a partire dal rapporto con Tirana, a una maggiore influenza nella parte meridionale della regione, una scelta che comporterebbe probabilmente (come indicano i contrasti determinati dal riconoscimento della Macedonia (394) nuove tensioni con la Grecia (e forse un grado di concorrenzialità con gli Stati Uniti).

È tuttavia difficile pensare che l’Italia – al di là del «semiprotettorato» che si era trovata di fatto ad esercitare sull’Albania durante l’operazione Pellicano – possa credibilmente aspirare a una politica di proiezione nazionale nei Balcani: semplicemente, l’Italia non ha i mezzi – diplomatici, economici e militari – per una strategia del genere; e sicuramente non può sperare di esercitare (rispetto al peso degli altri principali attori esterni) la maggiore influenza sull’area. Le tentazioni «opportuniste» del 1992-’93 sono state, come si è visto, molto circoscritte; e vanno intese piuttosto come il risvolto di una posizione marginale dell’Italia, del suo «basso profilo», nella gestione internazionale del conflitto nella ex Jugoslavia. Lo scenario peggiore sarebbe la ripresa di politiche solitarie e velleitarie, che già in passato hanno causato all’Italia notevoli delusioni. Per riprendere il giudizio di Sergio Romano, l’Italia si troverebbe di nuovo in «controtendenza» (395). Dopo la fine della guerra nella ex Jugoslavia, il problema di fondo sarà piuttosto quello di ricostruire un quadro di cooperazione regionale e di trarre dalle tragedie di questi anni lo stimolo per una politica comune europea. Se l’Italia riuscirà a muoversi in questo senso, potrà forse fare nei Balcani, per la prima volta, la politica giusta al momento giusto.
 
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istrobianco23
view post Posted on 11/3/2017, 16:36     +1   -1




Ringrazio ancora LW per il post di cui sopra, nuovamente "illuminante" semmai ce ne fosse stato ancora bisogno. Non per me. L'articolo è del settembre '94: ormai i giochi antiitaliani sono cucinati, bolliti e "digeriti". Il centrodestra (ancora per poco) è al governo del Paese, dopo la vittoria elettorale di primavera che fra i suoi "patti preliminari" (elaborati da una forza politica che si chiamava e continua a denominarsi "Forza Italia" :muro: ) prevedeva la rinuncia di AN a qualsivoglia rivendicazione territoriale sui territori perduti in Adriatico orientale. Resta appena qualche flebile accenno preouccupato ai "diritti" dei rimasti già divisi (come anche oggi) dal confine sloveno-croato in Istria e ai beni immobili da restituire (e mai restituiti) agli esuli. La ghiosa finale, che strizza l'occhio alle posizioni (formalmente e sostanzialmente antinazionali) del noto ex-ambasciatore Sergio Romano ci mostra come l'era dell'Eurogermania fosse già ufficialmente cominciata. Complessivamente dunque a questo articolo si potrebbe tranquillamente cambiare la data apponendovi (purtroppo) quella odierna.....Cari colleghi impegniamoci dunque, ognuno per ciò che può, affinché nel prossimo Parlamento italiano sieda almeno qualche politico irredentista e patriota in più, rispetto ai sempre più tristi anni '90 ed alla non migliore attualità :italia:
 
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view post Posted on 11/3/2017, 18:02     +1   -1
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Il succo del problema sta tutte in queste agghiaccianti righe.

CITAZIONE (Leonard Woods @ 10/3/2017, 22:26) 
PERCHÉ L’ITALIA HA FALLITO NELLA EX JUGOSLAVIA

È tuttavia difficile pensare che l’Italia – al di là del «semiprotettorato» che si era trovata di fatto ad esercitare sull’Albania durante l’operazione Pellicano – possa credibilmente aspirare a una politica di proiezione nazionale nei Balcani: semplicemente, l’Italia non ha i mezzi – diplomatici, economici e militari – per una strategia del genere; e sicuramente non può sperare di esercitare (rispetto al peso degli altri principali attori esterni) la maggiore influenza sull’area. Le tentazioni «opportuniste» del 1992-’93 sono state, come si è visto, molto circoscritte; e vanno intese piuttosto come il risvolto di una posizione marginale dell’Italia, del suo «basso profilo», nella gestione internazionale del conflitto nella ex Jugoslavia. Lo scenario peggiore sarebbe la ripresa di politiche solitarie e velleitarie, che già in passato hanno causato all’Italia notevoli delusioni. Per riprendere il giudizio di Sergio Romano, l’Italia si troverebbe di nuovo in «controtendenza» (395). Dopo la fine della guerra nella ex Jugoslavia, il problema di fondo sarà piuttosto quello di ricostruire un quadro di cooperazione regionale e di trarre dalle tragedie di questi anni lo stimolo per una politica comune europea. Se l’Italia riuscirà a muoversi in questo senso, potrà forse fare nei Balcani, per la prima volta, la politica giusta al momento giusto.

L'Italia potrebbe benissimo avere i mezzi diplomatici, economici e militari per proiettarsi nei Balcani, se non fosse gravemente limitata da NATO, UE, e dalla sua indecente classe politica di camerieri.

Tutto il resto come "politica comune europea" e "quadro di cooperazione regionale" e altre cagate simili che questi scienziati continuano a ripetere sono pura fuffa che non ha alcuna rilevanza.

Conta solo la politica di potenza che si può portare avanti. Conta solo quanto assertiva può essere la tua politica, le pressioni diplomatiche e militari che se in grado di esercitare. Da che mondo e mondo ha sempre funzionato così, non esiste nessuna possibilità di dialogo o collaborazione fra pari in un territorio che dovrebbe essere di tua totale ed esclusiva competenza ed influenza. Non è mai esistita. Chi ha il potere lo utilizza e se ne frega di ciò che pensano gli altri, e nei settori fondamentali per la sua strategia nazionale non permette a nessuno di metterci becco. La Germania e gli USA devono essere totalmente esclusi dall'area balcanica.

Nel momento in cui gli consenti di avere voce in capitolo hai già perso, perchè ti metti già in condizione di inferiorità, persistendo la situazione post-1945.

Io metterei agli arresti tutti quelli che straparlando di "cooperazione in un quadro di interessi strategici europei" o "convergenza di collaborazione politico-economica bilaterale nell'area di comune impronta internazionale" e altre supercazzole di questo tipo.
 
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427 replies since 9/9/2013, 13:42   9960 views
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